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Il 25 aprile di Bruno Trentin

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Celebriamo i 70 anni della riconquistata libertà attraverso la pubblicazione del racconto inedito (1)  di quelle giornate (24-25-26 aprile) redatto in forma di verbale da un giovanissimo Bruno Trentin, “incaricato al 24 aprile del 1945 dal Comando Formazioni Giustizia e Libertà di assumere il comando della Brigata Rosselli”. Trentin, che non ha ancora 18 anni alla morte del padre Silvio (12 marzo 1944), si dedica anima e corpo alla guerra partigiana con lo pseudonimo Leone, prima nella Marca trevigiana, soprattutto nelle Prealpi sopra Conegliano, in seguito, dopo il rastrellamento tedesco dell’estate 1944 a Milano, agli ordini del Cln Alta Italia e di Leo Valiani, cui il padre lo aveva affidato prima di morire.

“Vivrà a Milano sette mesi intensissimi, come dirigente dei Gap di GL, facendo una vita totalmente clandestina, cambiando continuamente residenza. Non teme di sporcarsi le mani. Il suo compito è di fare attentati, giustiziare spie, compiere azioni per acquisire armi, organizzare sabotaggi e azioni di propaganda nelle fabbriche”.

“[…] Bruno è un gappista determinato, dal sangue freddo eccezionale. I compagni di lotta ne ricordano il carisma: ti inchiodava con lo sguardo. Più giovane di tutti loro, impartisce ordini, risolve problemi, corre da un posto all’altro ‘con la furia di un ragazzo che aveva solo voglia di divorare, di divorare conoscenze, luoghi, persone’” (2) .

Emilio Lussu, in una lettera dell’11 maggio 1945 alla sorella di Bruno, Franca Trentin, lo definisce come “uno dei più audaci capi dell’insurrezione di Milano. [...] È stato semplicemente magnifico e ha rischiato mille volte: gli hanno sparato addosso in tante occasioni e si è sempre salvato. Egli ha in modo luminoso tenuto alto il nome dei Trentin”. E in un’altra del 6 giugno: “Capo delle squadre giovanili all’insurrezione di Milano, comandava oltre 2.000 uomini. Ora fa dei comizi nelle fabbriche con successi strepitosi! Se l’è cavata per miracolo. In una spedizione, sullo stesso camion sono morti 8 suoi giovani compagni presi di mira dai fascisti che vi lanciavano bombe. Si è salvato solo lui e lo chauffeur. Ha avuto anche altre avventure del genere. Insomma, è in vita. Ed è ben orgoglioso di portare il nome di Trentin” (3) .

Così nel Journal de guerre (scritto nella sua lingua madre, il francese) Bruno si esprimeva a proposito della Resistenza: “L’Italia finalmente si risveglia! Su tutta la superficie della penisola occupata dagli invasori tedeschi e dai loro degni sicari fascisti, il popolo italiano, quello del 1848, quello di Garibaldi e di Manin è in piedi e lotta [...]”. A partire da ora, “i criminali di Matteotti, gli assassini di Amendola, di Rosselli e di tutte le migliaia di eroi che non hanno voluto piegarsi alla loro ignobile tirannia, cominciano a pagare il pesante tributo dei loro crimini. [....] La guerra è aperta, oramai. Sorda, segreta, ma terribile. È lo spirito dei rivoluzionari che si facevano ammazzare nelle barricate ad animare oramai il popolo del Risorgimento”. 

“Dopo aver dormito vent’anni, questo popolo martire fa sentire all’immondo aguzzino in camicia nera tutte le terribili conseguenze del suo risveglio, È in piedi oramai. Lo si era creduto morto, servitore, vile e codardo, e invece è là!” (4) .
Responsabile Archivio storico Cgil nazionale

(1) Archivio storico Cgil nazionale, Fondo Bruno Trentin (III), b. 1, fasc. 1.
(2) Luisa Bellina, “La formazione antifascista e l’ingresso nella Cgil”, in “Bruno Trentin e la sinistra italiana e francese”, a cura di S. Cruciani, Roma, Collection de l’Ecole Française de Rome, 2012.
(3) Archivio personale di Franca Trentin.
(4) Bruno Trentin, “Diario di guerra (settembre-novembre 1943)”, Donzelli, Roma 2008.



IL DOCUMENTO
Brigata “Carlo Rosselli”


Incaricato al 24 Aprile del 1945 dal Comando Formazioni Giustizia e Libertà di assumere il Comando della Brigata Roselli [sic] lasciai al compagno Aldo Chiattelli (Chi[?]) la direzione delle GAP sindacali GL e raggiunsi i compagni Carlo Sampietro, Enzo Bracca[?], Franco Baietti e Gianni Santambrogio e altri in via Lovagno n. 5 incaricando loro di fare convergere per la mattina del 25 tutte le formazioni della Brigata dislocata nei vari settori disponendo intanto con il compagno Sampietro, commissario di guerra, un piano di occupazione di punti di appoggio in città.

Alla sera del 24 travestiti in divisa tedesca coi compagni Baietti franco operai vari disarmi nelle strade della città e ricupero di materiale ripartito in vari punti dal precedente Comandante della Brigata Enrico Mantero all’ora nell’impossibilità di agire per causa di infermità contratta in servizio.

Durante la notte mi tenni in continuo collegamento con il Comando Brigate Giustia [sic] e Libertà (Signorelli e Liberti).

Alle ore 5 del 25 Aprile uscì una squadra al mio comando che operò vari disarmi in zona Loreto – Vittoria e Garibaldi e che si portò alla protezione della tipografia Same ove si stampava, allora, l’Italia Libera.

Radunata la Brigata al completo (mille uomini circa) ci portammo, come previsto, in piazza della Scala per proteggere da eventuali attacchi, le trattative che si svolgevano allora in Municipio tra rappresentanti del CVL e 10a Mas.

Appena giunti, in piazza fummo investiti da raffiche di mitra e fucilate da parte dei fascisti imboscati dietro le inferriate. Seguii un combattimento. Da parte nostra un morto e 4 feriti tra i quali Franco Baietti colpito all’addome da una scheggia di bomba a mano e che malgrado ciò continuò a procedere combattendo alla protezione dei civili rimasti nella piazza.

Fascisti: morti 1 arresti 2.

La colonna si divise. Parte occupò definitivamente assieme ad una formazione Matteotti un Comando della Muti all’Arena ove rinvenne vario bottino (camion, deposito munizioni ed esplosivi, ingentissimo, bestiame, tutto regolarmente consegnato al Comando Carabinieri).

Al Comando del distaccamento “Arena” fu posto il compagno Col. Rolandi al vice Comando il maggiore Panizza.

Il Comando della zona Centro della Brigata fu posto, dopo breve combattimento, in piazzale Duse, da un nostro distaccamento giovanile, un altro Comando fu distaccato in Corso Magenta, un altro alle scuole Carlo Tenca. Il Comando Centrale della Brigata rimanendo in via Lovagno 5.

Il 26 dopo incarico ricevuto dal Capo di Stato Maggiore del Comando Piazza Liberti occupai con un distaccamento della Brigata il Comando Areonautica in piazza Italo Balbo respingendo in un ala [sic] dello stabile gli 80 tedeschi che lo presidiavano. Dopo varie trattative che duravano 1 giorno e 1 notte e con l’intervento di una divisione oltre Po i tedeschi deposero le armi e furono trasferiti al campo di Concentramento in piazza Fiume. In quella occasione fu arrestata, dopo vari tentativi di resistenza, la tristemente celere [sic] Squadra Azzurra dell’Areunatica. Fu rinvenuto ingentissimo bottino militare alimentare, di vestiario ecc. regolarmente consegnato all’Autorità del Comando Areunatico e al Comando Divisione oltre Po.

Operate varie perquisizioni e azioni armate da parte di gruppi e distaccamenti della Brigata tra le più importante l’arresto del Vice Comandante della Xa Mas a Milano con il successivo rinvenimento di lingotti d’oro, marenghi, sterline, gioielli per un valore approssimativo di oltre venti milioni regolarmente consegnati al Comando Piazza di Milano in presenza del Capo di Stato Maggiore e il fermo dopo accaniti combattimenti di due delle macchine fasciste che terrorizzavano la città.

Mi permetto di proporre ad un riconoscimento speciale (Medaglia o citazione) il compagno Celso Solari Ufficiale di collegamento della Brigata dal Gennaio del 1945 il quale arrischiando spessissime volte la propria vita ha adempiuto pericoli servizi in varie città dell’Alta Italia per conto del Comando delle nostre Formazioni e che è caduto il 26 Aprile sera abbattuto in un’imboscata fascista in Corso XXII Marzo nell’adempimento del proprio dovere.

N.B. Il compagno Enrico Mantero Comandante della Brigata fino all’accidente che lo ha costretto a letto ha assunto il comando del distaccamento areonautico, malgrado il suo stato d’infermità e la sua grande debolezza provvedendo di persona all’arresto degli elementi fascisti in Aereonautica e la tutela dell’ordine partecipando ai vari combattimenti svoltisi il 25-26-27.

In fede
Il Comandante Bruno Trentin


Il caso Moro nelle carte della Cgil

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Il 16 marzo 1978 (giorno della presentazione del nuovo governo, il quarto guidato da Giulio Andreotti) la Fiat 130 che trasporta Aldo Moro dalla sua abitazione alla Camera dei deputati, viene intercettata tra via Fani e via Stresa da un commando delle Brigate Rosse. I cinque uomini della scorta (Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi) vengono uccisi sul colpo, Moro è sequestrato.

Dopo una prigionia di 55 giorni il corpo dello statista viene ritrovato il 9 maggio a Roma in via Caetani, emblematicamente vicina sia a Piazza del Gesù che a via delle Botteghe Oscure, a due passi dalle sedi storiche – rispettivamente – della Dc e del Pci. La Cgil vive con commossa partecipazione l’intera vicenda, proclamando lo stesso 16 marzo – insieme a Cisl e Uil – lo sciopero generale.

Grandi manifestazioni hanno luogo a Bologna, Milano, Napoli, Firenze, Perugia e Roma, dove 200.000 persone si raccolgono in piazza San Giovanni. Così Luciano Lama dal palco: “Io credo, campagne e compagni, che nelle grandi prove, nei momenti decisivi come questo si misurano in effetti le qualità vere, migliori di una classe, di una popolazione, di una nazione”.

“Sul mondo del lavoro unito – prosegue il segretario generale della Cgil – incombe un compito importante nella difesa dei valori essenziali della libertà, della democrazia, della civiltà nostra; […] dobbiamo sentire che l’intesa, l’unità fra di noi è una delle garanzie vere, delle possibilità della democrazia, della libertà di trovare nel nostro popolo la sua difesa essenziale. Dimostriamo in questo momento difficile, in questo momento tragico della vita del paese di essere all’altezza di questo grave compito”.

Il 18 aprile, XXX anniversario della vittoria democristiana nelle elezioni del 1948, trentaquattresimo giorno del rapimento Moro arriva quello che poi sarà definito il falso comunicato numero 7 delle Brigate Rosse, il cui contenuto dà per avvenuto l’assassinio di Moro e indica il luogo dove ricercarne il corpo. La segreteria Cgil è riunita in corso d’Italia.

La riunione convocata di concerto con le segreterie del sindacato scuola, della Fiom, della Federbraccianti, della Federazione enti locali e ospedalieri e degli enti statali per avviare una riflessione in preparazione del convegno unitario per il diritto allo studio che si terrà a Montecatini il 3-4-5 maggio viene sospesa non appena si riceve la notizia.

Due giorni dopo, il 20 aprile, alla redazione di la Repubblica arriva il vero comunicato n. 7: è il comunicato dell’ultimatum: “Scambio di prigionieri o lo uccidiamo”. Il 21 aprile “la segreteria confederale si riunisce in via straordinaria per valutare gli ultimi sviluppi della vicenda relativa al rapimento dell’onorevole Moro. Nel comunicato delle ‘brigate rosse’ di ieri mentre si denuncia come apocrifo il comunicato precedente che indicava l’avvenuta uccisione, si fissa l’ultimatum dello scambio del rapito con 13 brigatisti attualmente in carcere. Questi elementi di novità nella situazione e le prese di posizione diverse emerse nei giorni scorsi all’interno del movimento sindacale, sembrano escludere, secondo la segreteria, la possibilità di una valutazione unitaria della Federazione [Cgil-Cisl- Uil]”.

Si discute quindi sull’opportunità di una dichiarazione della segreteria della confederazione di corso d’Italia. “La segreteria, dopo un dibattito cui partecipano tutti i presenti escluso Verzelli [Lama, Marianetti, Giovannini, Didò, Garavini, Trentin, Zuccherini, Giunti], pur ritenendo utile un intervento di orientamento per le strutture periferiche, deve registrare l’impossibilità di una presa di posizione perché si sono evidenziate notevoli differenze sia di principio che di ordine politico nel merito della questione relativa alla possibilità o meno di una trattativa coi brigatisti da parte dello Stato”.

L’epilogo della vicenda è tristemente noto. Nel comunicato n. 9 la Brigate rosse scrivono: “Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”. Così, sempre dal palco di Piazza San Giovanni a Roma, dirà il 10 maggio Luciano Lama: “Anche oggi, come il 16 marzo, Roma è qui in questa piazza per esprimere alla famiglia Moro e alla Democrazia cristiana la solidarietà dei lavoratori e per ribadire con fermezza incrollabile la volontà del nostro popolo di difendere lo Stato democratico, le nostre libertà […]”.

“Chi era Aldo Moro – si domanda Lama –? Egli era il capo di un partito col quale il movimento sindacale in questi decenni ha avuto anche momenti di contrasto e di lotta. Era uomo di partito e uomo di Stato, era, io credo, un moderato nella concezione politica e nel carattere, ma un moderato illuminato da una viva intelligenza e sensibilità sulle trasformazioni in atto nella società italiana, attento e lungimirante nel prevedere gli sviluppi dei processi che si svolgevano anche nel profondo di questa società. […] Noi sappiamo che le Brigate Rosse colpiranno ancora e potranno colpire uomini politici, sindacalisti, cosa che hanno già cominciato a fare, e dirigenti di impresa e poliziotti”.

“La lotta contro il terrorismo non finisce oggi – conclude il suo discorso il leader della Cgil –, anche se il miglioramento dell’efficienza dell’apparato dello Stato dovrà rendere più spedita l’azione contro le forze eversive. Ma se il paese rinserrerà le sue file, se il destino d’Italia sarà preso nelle proprie mani da ogni lavoratore, l’esito finale di questa dura prova è sicuro: le Brigate Rosse potranno ancora distruggere e uccidere, la loro barbarie inumana potrà farci ancora soffrire, ma essi non prevarranno”.

* responsabile Archivio storico Cgil nazionale

Mauthausen, la pagina più nera nella storia del mondo del lavoro

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Ieri (domenica 10 maggio) Susanna Camusso ha partecipato a Mauthausen, in Austria, alle celebrazioni per il 70° anniversario della liberazione dei campi di sterminio nazisti. “A Mauthausen, come è noto, durante la seconda guerra mondiale, furono deportati gran parte degli operai rastrellati dopo gli scioperi del 1944 – ha scritto in una nota la Cgil nazionale –. A Mauthausen è stata scritta una delle più drammatiche pagine di storia che riguardano direttamente il mondo del lavoro”.

Il triste elenco dei deportati nel campo di sterminio riporta fra gli altri il nome di Franco Antolini. Dopo l’8 settembre 1943, Antolini è tra gli animatori della Resistenza in Liguria. Membro del Comando militare regionale, il 18 marzo 1944, finisce nelle mani delle SS. Tre mesi di carcere e di stringenti interrogatori non bastano a strappargli nomi o indicazioni; così i tedeschi lo deportano nel campo di eliminazione di Mauthausen.
L’Archivio storico Cgil nazionale conserva il documento, inedito, “I primi giorni della Resistenza a Genova (settembre-dicembre 1943). Pagine di un diario non scritto”: 21 pagine manoscritte attraverso le quali Antolini racconta, giorno per giorno, la vita in montagna sua e dei suoi compagni. Nel celebrare il 70° della Resistenza e della liberazione dei campi di sterminio nazisti riproponiamo nella sua interezza il diario.



11 settembre 1943. I tedeschi di Savona, dopo averci minacciato di fucilazione per il nostro rifiuto di consegnare loro i documenti amministrativi del XV Anticentro di cui eravamo soldati, ci hanno spogliati delle divise e rimandati a casa. La pagheranno.

21 settembre 1943. Abbiamo già qualche tavoletta al 25.000 dell’Istituto geografico per le quattro zone montane della Liguria: ne occorrono altre, e bisogna fare copie di quelle che abbiamo. La Ditta E.A. monterà nella mia officina un “reparto riproduzione disegni” che riprodurrà le carte: ma dove trovare la carta fotografica sottile, in larghi fogli? Contatti con lo studente di Torriglia che ne promette. Adesso ho stabiliti contatti con impiegati della Unione industriali: Pieragostini (1) si diverte all’idea che la lotta contro il capitalismo filo nazista trovi punti d’appoggio in casa del nemico, e a sue spese. Paggi è l’elemento migliore di questo ambiente: chiede anche libri, pensa, discute. Non ci tradirà (Agostino Paggi è morto a Mauthausen, vittima ignorata della nostra fede, con grande fierezza).

1° ottobre 1943. Sull’Antola c’è già un gruppo di nostri elementi: a Favale anche: sui monti sopra Voltri e sopra Pontedecimo anche. Abbiamo dati, ai singoli responsabili di zona, nomi dei mesi. Gennaio e Febbraio sono a ponente e in Polcevera; Marzo è a Favale; Aprile sull’Antola. A Lavagna lavorano Bini (2) e suo cognato; un gruppo di giovani, professori, studenti e operai. Sono rientrati in circolazione Buranello (3) e i suoi compagni, arrestati nell’ottobre del 1942 a Sampierdarena: lavorano tra gli studenti, ma pensano più a trovare armi che a leggere dispense.

10 ottobre 1943. Un comunista ogni dieci che salgono ai monti è l’obiettivo iniziale che si pone il partito della classe operaia. Qui ne salgono otto su dieci. Pieragostini mi presenta a Castelletto, tra un vento furioso che tiene lontani tedeschi e benpensanti Lucio e Paolo [?]: uno esce da anni di galera, l’altro viene dall’esilio. Male vestiti, debilitati dagli stenti, saliranno in settimana sui monti.

23-24 ottobre 1943. Riunione sull’Antola: Paolo prende le consegne da Aprile; Marzo, zoppicante con barba da mazziniano e mantellaccio da contadino spagnolo, è giunto a piedi da Favale, via Barbagelata. Ardesio (4) e Falini [?] sono saliti da Genova, altri da Torriglia. Ispezioniamo e lasciamo presidiata la zona Antola-Capanne di Carrega. La notte nella “Casa del romano” è stata passata, tra le paure della padrona, i nostri fucili, la pioggia di fuori e la fame di dentro. La sera del 24 a mezzanotte arriviamo con Ardesio a Busalla, piena di tedeschi. La montagna era deserta e ci aveva dato senso di sicurezza: i fascisti restano tappati nelle loro casermette di avvistamento antiaereo, dalle quali occorre sloggiarli al più presto, come si è convenuto sull’Antola. Dormiamo da Macciò (5), che (sappiamo poi) nasconde noi al piano terreno, in camera da pranzo; Dellepiane (6) al primo piano, Sem Benelli al secondo, e riceve all’indomani la visita di un tizio che mi rifiuto di conoscere e che si scoprirà poi essere una spia dei tedeschi (Macciò pagherà cara la sua entusiastica imprudenza: è caduto anch’egli a Mauthausen nel 1944). Ripartiamo con una certa urgenza all’indomani.

Fine ottobre (cancellato) 1943. Le prime casermette fasciste sono state assaltate: gioia di leggere la notizia, tanto attesa, nei giornali fascisti. Il tenente delle brigate nere è caduto a Sampierdarena. I Gap si affiancano nell’azione ai gruppi partigiani. Elementi di altre correnti politiche, prima dubbiosi, sono ora presi dall’entusiasmo. Il buon Pepe (7) ha già pronta la “zucca” per la emissione della nostra moneta. I nemici sono numerosi: è saltato un ponte e si è data la colpa a un fulmine. Poi ne è saltato un altro in piena giornata di sole. Un compagno di Certosa mi telefona un giorno chiedendomi come mai si sente sparare e non è suonata la sirena d’allarme: è il comunicato che l’operazione dei Gap di Certosa è riuscita. Abbasso il ricevitore e faccio un salto di gioia.

4 novembre 1943. Sul monumento ai caduti di Lavagna si è trovato scritto: A morte i tedeschi, viva la libertà. Gli autori, da domani, partiranno ai monti: chi sa dove finirà Piccolo campo di Caldwell che avevo prestato a uno di loro.

Novembre 1943. Sciopero dei tramvieri. È riuscito superbamente. A colazione incontro Manes [?]: è tanto contento da diventare pericoloso: beviamo alla salute dello sciopero e dei tramvieri. Hanno arrestati Guglielmetti (8) ed altri: cadranno da eroi, come hanno combattuto in questi giorni. Rino Mandoli, dopo otto anni di galera, prende il suo posto tra noi. (Rino Mandoli – Sergio – salì poi a Capanne di Marcarolo. Fu catturato come borsanerista, tradotto ad Alessandria, riconosciuto da Veneziani, fu poi trasferito a Genova. Fu ospite della stessa mia cella alla IV Sezione: pensammo di essere fucilati insieme. Deportarono me ed uccisero lui, sul Turchino, nel maggio 1944. Caro grande Sergio).

Fine novembre 1943. Funziona, come può, il primo Comitato militare di Cln: Raimondo (9) per la Dc; Rapuzzi [?] per il Pda, poi Lanfranco (10), poi Tomasi (11); Bruzzone (12) per i socialisti; Lazagna (13) per i liberali. Sede il San Nicola, lo stesso Collegio dove, nel 1926, ci trovammo con Carlo Roselli, Manzitti (14), Tarello (15), Sabatelli (16) e altri, per ricostruire le file dell’antifascismo. Caro Marchi (17), sempre eguale dopo vent’anni, sempre antifascista, sempre coraggioso, sempre ingenuo.

Dicembre 1943. Nello o Nullo [?], ispettore delle Brigate Garibaldi, non è malcontento del lavoro fatto a Genova: Dario, ispettore del Gap, ci consegna la miccia che ci mancava sotto forma di uno spago col quale teneva legato un suo pacco, ostentato sui treni e per la strada. Litighiamo perché ne vogliamo un metro di più e lui ci assicura che ripasserà quando sarà per finire. Il coprifuoco è alle 16. Lo porteremo a Mezzogiorno!

Dicembre 1943. Continuano le ispezioni in montagna: sui treni, nelle corriere, per le strade di Marassi, trovi sempre qualcuno che mi conosce. Fino a quando crederanno che vado in cerca di patate per la famiglia? Ispezione notturna agli uomini di Marzo, gente di Chiavari, emiliani dell’esercito che non hanno potuto andare a casa, sua figlia che fa la staffetta. Polenta e castagne secche: per festeggiarmi, anche il vino. Il solenne e misterioso “Comitato militare di Cln” manda, per mio tramite, i capitali occorrenti alla alimentazione e all’armamento: cinquecento lire.

Dicembre 1943 Ardesio ha trovato l’ufficiale radiotelegrafista che aspettavamo. Lo battezziamo Bisagno (18) e lo affianchiamo a Bini.

20 dicembre 194[3] (l’originale riporta 1944, ma dovrebbe trattarsi di un errore). Porto Dante (19) a Cichero dove già sono Marzo, Bini e Bisagno; il gruppo è di molte decine di uomini. Nasce il problema della… licenza natalizia. I compagni stanno perdendo la nozione di come sia difficile passare dai posti di blocco e venire in città. Soprattutto non si rendono conto dei pericoli delle loro inevitabili confidenze familiari al tavolo di Natale. Battuta a Chiavari per scavare le armi sepolte l’8 settembre: oggi abbiamo braccia disposte ad usarle bene. Rientrano a mezzanotte incolumi: vestiti da contadini hanno sulle spalle alberelli fasciati con piccole radici da un lato e foglie dall’altro. Slegati gli alberi si rivelano fucili truccati. Danze notturne, sulla montagna, complice sicura. Tra poco, se i contatti con Ruggiero daranno i frutti sperati, dovremmo avere i primi lanci. Gli inglesi (quelli del colonnello Gore) non volevano farne perché “ci sono troppi comunisti tra i partigiani”: gli americani pare non siano di questa idea.

Gennaio 1944. “L’erba cresce d’estate”; “Le api hanno il miele”: Radio Londra trasmette le parole d’ordine attese. I lanci ci saranno. I lanci ci sono stati. Lanfranco inalbera per Genova una camicia bianca a righe azzurre, ricevuta dal cielo. Ma ci sono anche scarpe, armi, cioccolata. I nostri uomini avranno meno fame.

20 gennaio 1944. Ispezione a Prato Sopralacroce, con Bini e Bisagno. Il parroco, l’oste, la mia aria borghese, la loro da pirati barbuti, un autista – maledizione – che mi conosce da ragazzo, a Cornigliano. Usiamo i casoni di alloggiamento per il dispositivo strategico che era scoperto in quel settore: facciamo i tonti fino al momento di ripartire. Sapremmo poi che l’oste era una spia e che sapeva i nostri nomi: ci attenderà al varco per molto tempo per darli a Spiotta (20). Chi di noi cadrà, cadrà per altri motivi e in altre situazioni. La fortuna assiste i combattenti per la patria e per la libertà.

Febbraio 1944. Siamo migliaia. I problemi di approvvigionamento preoccupano Ardesio, che ha 600 uomini alla Benedicta.

(1) Raffaele Pieragostini
(2) Giovanni Serbandini
(3) Giacomo Buranello
(4) Ingegner Agostini (Pietra o Ardesio)
(5) Enrico Macciò
(6) Arturo Dellepiane
(7) Giuseppe Bianchini
(8) Romeo Guglielmetti
(9) Enrico Raimondo
(10) Eros Lanfranco
(11) Giovanni Trombetta (Tomasi)
(12) Dante Bruzzone
(13) Umberto Lazagna
(14) Francesco Manzitti
(15) Mario Tarello
(16) Francesco Sabatelli
(17) Giulio Marchi
(18) Aldo Gastaldi
(19) Stanchi [?]
(20) Vito Spiotta

Luciano Lama: 50 anni di intensa attività dalla parte del lavoro

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Il 31 maggio 1996 muore a Roma Luciano Lama, sindacalista, politico, partigiano, dal 1970 al 1986 segretario generale della Cgil. Così nel suo diario personale, inedito e conservato presso l’Archivio storico della confederazione di corso d’Italia, lo ricorda Rinaldo Scheda, segretario confederale della Cgil dal 1957 al 1979. “La morte di Luciano Lama ha suscitato dolore, sconforto in molte lavoratrici e molti lavoratori, anche tra quelli più giovani che non l’avevano conosciuto ma avevano sentito parlare di lui dai più anziani” (vedi la pagina del diario).

“I rappresentanti delle più importanti istituzioni, a cominciare dal capo dello Stato, il presidente del Consiglio dei ministri, i dirigenti nazionali delle confederazioni sindacali, gli esponenti dei partiti politici e delle associazioni imprenditoriali, alla salma di Lama hanno reso un omaggio non formale ma hanno invece manifestato una stima sincera e una solidarietà piena verso lo sgomento dei familiari”. Perché tanta partecipazione? “A questo interrogativo – prosegue Scheda nel suo diario – in molti hanno già risposto. Cinquant’anni di attività intensa ai più alti livelli nel sindacato, nelle istituzioni e nel suo partito hanno lasciato un segno destinato a rimanere […]”.

La parte fondamentale dell’impegno di Lama, annota Scheda, fu dedicato al movimento sindacale. “L’ho conosciuto nel 1945 quando gli fu affidata la direzione della Camera del lavoro di Forlì. Due anni dopo come vice segretario nazionale della Cgil partecipò ai lavori del Congresso della camera del lavoro di Bologna. Il discorso conclusivo dei lavori di quel Congresso destarono [sic] in tutti i delegati una impressione molto positiva. Mi felicitai con lui perché quasi mio coetaneo dimostrò una capacità molto superiore alla mia e di tanti altri giovani sindacalisti”.

Il primo incontro a Roma tra Scheda e Lama avvenne in via Boncompagni. “Fui destinato, alla fine del 1952, a dirigere la Federazione dei lavoratori edili – prosegue Scheda –. Non ricordo se si era già trasferito alla Federazione dei lavoratori chimici. La sede della Filcea era al piano superiore dove con Brodolini lavoravamo alla Fillea. Ci vedevamo spesso per scambiarci delle opinioni sulla situazione sindacale e politica che era allora molto difficile. Evitavamo di parlare del campionato di calcio perché lui sosteneva la Juventus mentre io in quel periodo facevo il tifo per il Bologna”.

L’interesse di Lama verso il calcio è un fatto noto e di certo non isolato in quegli anni tra i dirigenti politici e sindacali della sinistra. Narra la leggenda che Palmiro Togliatti ogni lunedì mattina chiedesse al vicesegretario del Pci, Pietro Secchia, che cosa avesse fatto la Juve il giorno prima. Mentre a proposito di un insospettabile Di Vittorio, racconta la moglie Anita: “Durante il Congresso [il primo Congresso confederale unitario, Firenze, 1-7 giugno 1947] erano state organizzate manifestazioni culturali e sportive. Fra queste ultime anche delle partite di calcio, una delle quali tra baresi e fiorentini”.

Di Vittorio, sempre secondo il racconto della moglie, doveva consegnare una coppa alla squadra vincente. “All’inizio della partita fece gli auguri ad ambedue le squadre ma certo nel suo intimo parteggiava per i baresi. Con quanta passione seguì la partita! Per me fu una vera e propria rivelazione: mi accorsi che Peppino era un ‘tifoso’. Si sbracciava, urlava: ‘Dai, Bari! Forza!’. Ma i baresi furono clamorosamente sconfitti, e se ben ricordo, non fecero nemmeno un goal. Di Vittorio dovette consegnare la coppa alla squadra ‘stravincente’ e lo fece con un sorriso involontariamente amaro. ‘Che figura mi hanno fatto fare!” mormorò. Ma poi, sportivamente, si felicitò con i giocatori fiorentini’ (A. Di Vittorio, La mia vita con Di Vittorio, Vallecchi Editore, Firenze 1965, p. 151).

*Responsabile Archivio storico Cgil Nazionale

I dieci giorni che cambiarono il paese

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Il 14 maggio 1960 il Movimento sociale italiano ufficializza il suo sesto congresso per il 2 luglio a Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza. Gli ex partigiani, appoggiati dalla popolazione e dalla nutrita comunità dei portuali, iniziano a picchettare ogni angolo del capoluogo ligure; i sindacati di categoria fanno la voce grossa con il governo: quel congresso a Genova non si deve tenere, a qualunque costo. Dopo due cortei, il primo svoltosi il 25 giugno, e il secondo, il 28 giugno, concluso con un comizio di Sandro Pertini (pdf), il 30 giugno la Camera del lavoro proclama lo sciopero generale.

Un lungo corteo si dipana per le vie cittadine. Risalendo dal porto migliaia di cittadini, in massima parte di giovane età (i cosiddetti ragazzi dalle magliette a strisce) si riversano per le strade del capoluogo. Alla testa della manifestazione, gli operai metalmeccanici e i portuali, ad aprire il corteo i comandanti partigiani. Davanti al tentativo, da parte della polizia di sciogliere la manifestazione, esplode la rabbia popolare. Alla fine della giornata Giuseppe Lutri, prefetto di Genova, si vede costretto ad annullare il congresso del partito neofascista.

Trascorrono solo pochi giorni (è il 5 luglio) e a Licata, in provincia di Agrigento, durante una manifestazione unitaria di braccianti e operai, la polizia uccide Vincenzo Napoli. Il 6 luglio a Roma viene negata l’autorizzazione a una manifestazione di protesta per i fatti appena accaduti a Genova e in Sicilia. La manifestazione però si tiene ugualmente: sfidando apertamente il divieto i romani scendono per le strade. Porta San Paolo si presenta accerchiata da celerini e carabinieri, per la prima volta vengono utilizzati i carabinieri a cavallo.

Così trent'anni più tardi Aldo Natoli ricorda l’accaduto: “Eravamo circa una trentina di deputati dell’opposizione, comunisti e socialisti, venuti a deporre una corona presso la lapide che ricorda i caduti nella resistenza contro i nazisti a Porta San Paolo nel settembre 1943. La lapide si trova fuori dalla Porta, oltre la Piramide. Noi stavamo stretti nel giardinetto che occupava l’angolo formato dal viale Aventino e da via Marmorata nel confluire sul piazzale. Intorno e dietro c’era folla, non smisurata, se ricordo bene, qualche migliaio di persone, ma vivacissime”.

“Di fronte – prosegue il racconto di Natoli –, a breve distanza, a presidio degli accessi alla Porta e alla lapide, schiere nutrite di poliziotti, camionette della Celere e tutto il vasto piazzale retrostante fino alla stazione della ferrovia per Ostia era stato sgomberato ed era occupato dalla polizia. Il traffico era stato interrotto. Infatti la manifestazione contro il governo sostenuto dai fascisti era stata vietata. Anche solo l’accesso e l’omaggio (non ricordo che fossero previsti discorsi) a un luogo-memoria della popolazione romana, alle soglie del quartiere rosso, allora, di Testaccio, erano negati. C’era tensione e dietro di noi il brusio inquieto della folla (documento integrale)”.

In solidarietà con quanto successo a Genova, Roma e Licata, il 7 luglio 1960 a Reggio Emilia è indetto lo sciopero generale. La polizia spara nuovamente contro i dimostranti e cinque persone rimangono a terra uccise: Lauro Farioli (22 anni), Ovidio Franchi (19), Emilio Reverberi (39), Marino Serri (41) e Afro Tondelli (36). Tutti e cinque operai e comunisti, alcuni ex partigiani. A breve distanza di tempo, la rivista “Vie Nuove” pubblica un disco con la registrazione sonora degli scontri. Si ascoltano i colpi dei lacrimogeni e delle pistole, le raffiche dei mitragliatori, le sirene della Celere e delle ambulanze.

Dell’episodio dirà Pier Paolo Pasolini: “Spero che nessun registratore serva mai più a stampare dischi come questo. Che è il più terribile – e anche profondamente bello – che abbia mai sentito” (dalla rubrica Dialoghi con Pasolini, Vie Nuove a. XV, n. 33, 20 agosto 1960, leggi tutto).

L’8 luglio, a Palermo, il centro è presidiato fin dalle prime ore del mattino dalla Celere per disturbare lo sciopero generale proclamato dalla Cgil per i fatti di Reggio Emilia. Negli scontri con la polizia restano uccisi: Francesco Vella, 42 anni, sindacalista; Giuseppe Malleo, 16 anni; Andrea Gancitano, 18 anni; Rosa La Barbera, 53 anni, casalinga; 36 manifestanti sono feriti da proiettili; 400 i fermati, 71 gli arrestati. Sempre l’8 luglio, a Catania, rimane ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato dalla polizia Salvatore Novembre, giovane lavoratore edile di 20 anni.

Scrive in quei giorni Luciano Romagnoli su “Rinascita”: “Che cosa era in discussione a Genova? E, dopo ancora, a Licata, a Roma e a Reggio Emilia? Che cos’era in discussione nel paese? Era il fondamento stesso dello Stato democratico: l’antifascismo, la resistenza e la Costituzione repubblicana” (qui il documento integrale). Così nel mese di luglio, sempre su “Rinascita”, Vittorio Foa: “Il fascismo per i lavoratori italiani oggi non è solo l’eco remota e nostalgica delle squadracce e delle aquile e degli orpelli barbarici dell’età mussoliniana, ma è, nelle condizioni mutate, l’arbitrio in luogo della giustizia, la disciplina subordinata in luogo della parità dei diritti e doveri reciproci fra lavoratore e padrone, la corruzione e l’avvilimento, la mancanza di prospettiva, il contrasto tra i profitti giganteschi e i salari stagnanti, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro che impedisce all’uomo, finito il lavoro, di avere forze bastevoli per partecipare alla vita nelle sue forme più alte”.

Sono questi motivi, particolarmente vivi fra i giovani, “che hanno creato – sempre secondo Foa – il fatto nuovo dell’unità sempre più stretta fra operai e studenti, fatto nuovo che impone seri riesami da parte delle organizzazioni sindacali” (leggi tutto). E nei giorni immediatamente successivi, Rinaldo Scheda scriverà su “Rassegna Sindacale”: “Abbiamo sconfitto i fascisti e Tambroni in quei dieci giorni che hanno scosso il paese” (pdf).



*responsabile Archivio storico CGIL nazionale

14 luglio 1948: l'Italia si mobilita. Di Vittorio: la Cgil non si tocca

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Nel giugno 1948 Giuseppe Di Vittorio in rappresentanza dei lavoratori italiani fa parte della delegazione che partecipa alla XXXI Conferenza del Bureau International du Travail che ha luogo a San Francisco in California. Rientrerà a Roma il 14 luglio. Ricorda la moglie Anita: "Ciampino era animato più del solito, e Peppino si guardava attorno interrogativo quando un ufficiale, seguito da altra gente, lo raggiunse di corsa gridandogli: 'Onorevole! Hanno ucciso Togliatti!". E un altro di rincalzo: 'No, non è morto… È grave ma è vivo ancora…'. Il colpo fu terribile. Vidi il volto di Peppino impallidire e poi immediatamente irrigidirsi in uno sforzo di volontà".

"'Chiama subito la confederazione', mi ordinò. Il comandante ci avvertì: 'Sarà difficile telefonare. C’è lo sciopero generale'. 'Com’è possibile? - chiese Peppino - Bitossi avrebbe potuto avvertirmi!'. Lo informarono allora che l’attentato aveva avuto luogo appena due ore prima [il racconto degli avvenimenti attraverso i comunicati Ansa] e che lo sciopero era esploso immediatamente, senza alcuna direttiva della confederazione". "In realtà, la segreteria confederale si riunì soltanto nel pomeriggio [ndr, verbale mancante]. Con la presenza di Di Vittorio la segreteria della Cgil sanzionava lo sciopero già in atto senza fissarne, per il momento il termine. Fu deciso però di riunirsi nuovamente il giorno successivo [ndr, verbale mancante], per deliberare sugli sviluppi da dare all’azione".

Prosegue Anita: "I dirigenti democristiani sottoscrissero la decisione comune, ma il giorno dopo non intervennero alla nuova riunione [ndr, verbale mancante] con la quale si decise di limitare la prosecuzione della protesta al mezzogiorno del 16 […] Ma l'indignazione dei lavoratori era tale che le disposizioni della confederazione non vennero applicate dovunque: in alcune città lo sciopero si protrasse ancora per il 16 e il 17 luglio. Cominciavano intanto, da parte governativa, le repressioni, le denunce, gli arresti contro coloro che in quelle giornate avevano diretto il movimento di protesta o vi avevano partecipato. Ma il colpo più duro inferto al movimento dei lavoratori dopo il 14 luglio non fu nemmeno questa ondata di arresti, ma la rottura dell’unità sindacale”.

Scriverà Di Vittorio il 21 luglio su "Lavoro": “Dal punto di vista degli interessi dei lavoratori, non esiste nessun motivo che possa obiettivamente giustificare la scissione. La Cgil è un’organizzazione unitaria, libera, indipendente, con strut-tura nettamente democratica. Tutti hanno la possibilità in essa di esprimere liberamente le proprie opinioni, e tutti i dirigenti sono liberamente eletti col sistema proporzionale, in modo che ogni corrente è rappresentata negli organi dirigenti di tutte le organizzazioni sindacali. In linea di fatto, attualmente le correnti minoritarie hanno negli organismi dirigenti della confederazione e di numerose federazioni e Camere del lavoro, una rappresentanza più larga di quella che loro spetterebbe sulla base del sistema proporzionale. È per questo che io sono fermamente convinto che la grande maggioranza dei lavoratori democristiani – i quali hanno partecipato compatti allo sciopero generale insieme ai loro fratelli delle altre correnti e di nessuna corrente – non si lasceranno abbindolare dalle manovre scissioniste” [LEGGI TUTTO].

Il 26 luglio si riunisce a Roma il comitato direttivo confederale [leggi il verbale]. “Alcuni giornali – dirà due giorni dopo Di Vittorio su 'l’Unità' – hanno parlato di 'espulsione' della corrente democristiana dalla Cgil. Non vi è nulla di più inesatto: il comitato esecutivo della Cgil non ha espulso nessuno. Esso si è limitato a constatare che gli esponenti democristiani, dichiarando rotta irrimediabilmente l’unità ed iniziando un’attività diretta a creare una nuova organizzazione contro la Cgil, si sono posti naturalmente fuori della confederazione unitaria, e sono quindi decaduti da tutte le cariche e funzioni sindacali” [LEGGI TUTTO].

Sempre sulle colonne de "l’Unità" dirà Di Vittorio il 5 agosto [leggi il verbale del cd confederale del 5-7 agosto 1948]: “Gli scissionisti democristiani sono stati degnamente ripagati del loro tradimento contro l’unità dei lavoratori. Essi sono stati ripagati dal coro di plausi che si sono meritati da tutta la stampa gialla, da tutti i giornali finanziati dai grandi industriali, dagli agrari e dai banchieri. Gli scissionisti sono stati ripagati, altrettanto degnamente, ma in modo per essi inatteso, dagli autentici lavoratori democristiani, i quali hanno compreso l’inganno e si schierano compatti per l’unità e per la Cgil, isolando i fautori di scissione, i prediletti della stampa gialla. Fin quando si trattava di iscriversi alle Acli, di andare a messa, di ricevere qualche buono di zucchero e di pasta – senza compiere nessuna azione di tradimento verso se stessi e verso i propri compagni di lavoro – non pochi lavoratori ci stavano. Oggi, però, il gioco è scoperto”.

“Gli esponenti della corrente sindacale democristiana – prosegue Di Vittorio – hanno bruciato le tappe, hanno reso chiara la loro volontà di pugnalare alle spalle la Cgil, di spezzare la grande famiglia unitaria e perciò i lavoratori democristiani li abbandonano, tenendo fede al giuramento di tutti i lavoratori italiani, di non lasciarsi mai più dividere da nessuna manovra, di restare fedeli alla propria unità, alla loro grande Cgil! […] A tanto sono giunti i fautori di scissione nella loro pervicace volontà di paralizzare, pugnalare, annientare la Cgil. Ma a quella pervicacia si oppongono sette milioni di lavoratori. Da questi milioni di lavoratori erompe un solo grido possente, ammonitore: la Cgil non si tocca!” [LEGGI TUTTO].

I DOCUMENTI DELLA SCISSIONE DAL «NOTIZIARIO»

*Responsabile Archivio storico Cgil nazionale

Commissioni interne: quando la democrazia rientrò in fabbrica

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2 settembre 1943: poche ore prima della firma dell’armistizio con gli alleati anglo-americani, Bruno Buozzi firma con gli industriali un importante accordo interconfederale per il ripristino delle Commissioni interne. L’accordo (il cosiddetto patto Buozzi-Mazzini) reintroduce nel campo delle relazioni industriali l’organo di rappresentanza unitaria di tutti i lavoratori, impiegati e operai nelle aziende con almeno 20 dipendenti, attribuendogli anche poteri di contrattazione collettiva a livello aziendale.

Già prima della caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943 in seguito al voto del Gran consiglio del fascismo, settori importanti delle classi lavoratrici del nord erano tornati a scioperare contro il regime nel marzo-aprile 1943. Con l’arresto di Mussolini, il nuovo governo Badoglio aveva deciso di commissariare le vecchie strutture sindacali fasciste: Bruno Buozzi era stato nominato nuovo commissario dei sindacati dell’industria; all’agricoltura era stato designato Achille Grandi, mentre a Giuseppe Di Vittorio era stata affidata l’organizzazione dei braccianti.

I tentativi di costituzione e per il riconoscimento di fatto delle Commissioni interne hanno inizio con il nascere stesso del movimento operaio. Di esse si hanno più frequenti notizie intorno al 1900: in questo primo periodo però erano senza organi stabili, poiché venivano nominate in occasione di agitazioni o di scioperi come delegazioni operaie per le trattative con il datore di lavoro.

Il termine Commissione interna si trova per la prima volta usato all’interno dell’accordo Itala-Fiom, firmato a Torino nel 1906 (1). Appena due anni dopo, nel marzo 1908, la Lega Industriale dirama – si legge su “l’Avanti!” – un gruppo di “suggerimenti” alle direzioni delle industrie da utilizzare come base per un’azione comune verso gli operai organizzati. Il primo dei “suggerimenti” riguarda, appunto, “l’abolizione delle Commissioni interne”. Quattro anni dopo, nel 1912, le Commissioni interne vengono effettivamente abolite per legge. Ma risorgono nel 1913.

La fine della guerra del 1914-18 trova il movimento delle Commissioni interne notevolmente esteso e proteso verso un allargamento dei suoi compiti e delle sue funzioni sul terreno economico. Scrive Antonio Gramsci su “L’Ordine Nuovo” l’anno successivo alla sconfitta degli imperi centrali: “L’esistenza di una rappresentanza operaia all’interno delle officine dà ai lavoratori la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia”.

Le Commissioni interne, scrive ancora Gramsci su “L’Ordine Nuovo” del 21 giugno 1919, “sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le Commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina. Sviluppate ed arricchite, dovranno essere domani gli organi di potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione”.

L’avvento del fascismo arresta però lo sviluppo di questi organi di rappresentanza: il 2 ottobre 1925 l’articolo 4 del Patto di Palazzo Vidoni sancisce: “Le Commissioni interne di fabbrica sono abolite e le loro funzioni demandate al sindacato (fascista) locale”. Reistituite con l’accordo Buozzi-Mazzini del 2 settembre 1943, le Commissioni interne ricevono una nuova regolamentazione con l’accordo del 7 agosto 1947 tra la Cgil e Confindustria e con l’accordo interconfederale dell’8 maggio 1953 (l’ultimo accordo interconfederale sulle commissioni interne è del 18 aprile 1966 e ancora oggi è formalmente in vigore).

Il 29 marzo 1955 a Torino, per la prima volta la Cgil è messa in minoranza nelle elezioni per le Commissioni interne alla Fiat. Il successivo 10 aprile afferma sul “Lavoro” un lucido e coraggioso Giuseppe Di Vittorio: “Sui sorprendenti risultati delle recenti elezioni delle Commissioni Interne del complesso Fiat si è concentrata l’attenzione di tutto il Paese. Questo è un fatto positivo, in quanto può contribuire a far conoscere largamente al Paese il clima di dispotismo e di ricatti padronali instaurato alla Fiat e in molte altre aziende, determinando condizioni più favorevoli allo sviluppo della lotta per il rispetto dei diritti democratici e della dignità dei lavoratori nei luoghi di lavoro”.

“Sarebbe tuttavia un grave errore – continua Di Vittorio nello stesso articolo – se noi, individuando e denunciando l’azione illegale e ricattatoria del grande padronato, sottovalutassimo la gravità del colpo inferto alla Fiom e alla Cgil nelle recenti elezioni della Fiat; se noi, cioè, tentassimo di scagionare ogni nostra responsabilità nella sconfitta. Ciò non sarebbe degno di una grande organizzazione come la Cgil, la quale affonda le sue radici in tutta la gloriosa tradizione del movimento sindacale italiano, ne rappresenta la continuità storica ed ha tutto l’avvenire davanti a sé” (leggi tutto).

Scriverà qualche anno più tardi Rinaldo Scheda nel suo diario personale (inedito e conservato presso l’Archivio storico della Cgil nazionale): “(…) Di Vittorio mi aveva colpito in tante fasi della sua vita sindacale. Ci sono però due episodi che mi rimarranno impressi nel tempo che mi resta da campare (…)”. Uno dei due, ricostruisce il sindacalista bolognese – segretario confederale della Cgil dal 1957 al 1979 – “si verificò in una riunione del Comitato direttivo confederale svoltasi a Roma al primo piano della sede di Corso Italia. È una riunione che fece scalpore. La lista della Fiom per la nomina della Commissione interna alla Fiat aveva subito una dura sconfitta. (…) La relazione di Di Vittorio espose le ragioni, le cause di quello smacco. Conoscevo ormai in quel periodo la sua personalità. Le luci e anche alcune ombre. Per esempio sapevo che il sottoporre il suo lavoro ad un esame autocritico gli costava una certa fatica. Era un comportamento che derivava dalla sua forte personalità. Quella relazione la ricordo ancora oggi, a tanti anni di distanza, come una pagina esemplare, una lezione di vita”.

(1) Il 3 dicembre 1906: viene firmato ufficialmente a Torino il contratto collettivo tra la Società automobilistica Itala e la Fiom. Si tratta di uno dei primi significativi esempi di accordo collettivo in Italia. Esso sancisce il riconoscimento delle Commissioni interne, dei minimi salariali, delle 10 ore giornaliere (su 6 giorni settimanali), della clausola del “closed shop” per l’assunzione dei lavoratori iscritti al sindacato, il quale funge da ufficio di collocamento.

*Responsabile Archivio storico Cgil nazionale

Le conferenze di organizzazione nella storia della Cgil

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La prima Conferenza di organizzazione della storia della Cgil si svolge a Roma il 18-20 dicembre 1954. Agostino Novella, allora segretario organizzativo, lancia l’idea delle sezioni sindacali di fabbrica (approvate poi dal Congresso di Roma del 1956) alle quali affidare i compiti del tesseramento, della propaganda, della diffusione delle direttive sindacali e successivamente dell’articolazione rivendicativa (vedi l’intervista ad Agostino Novella, in ‘Lavoro’, n. 51, 19 dicembre 1954).

Nel novembre 1979, la Federazione Cgil-Cisl-Uil, nata nel luglio di sette anni prima, organizza a Montesilvano un importante convegno nazionale di organizzazione, ma per una nuova Conferenza di organizzazione (la seconda) bisognerà attendere il 14-17 dicembre 1983. I temi della democrazia d’organizzazione e del decentramento sono la risposta confederale alla rottura dei rapporti unitari che sfocerà nel 1984 nell’accordo di San Valentino.

Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino. Pochi giorni dopo, dal 14 al 16 novembre, la Cgil svolge a Firenze la sua terza Conferenza di organizzazione, necessario completamento della svolta avviata con la Conferenza di programma di Chianciano dell’aprile precedente, durante la quale Bruno Trentin aveva lanciato l’idea del “sindacato dei diritti e del programma” (ufficialmente sancito dal XII Congresso di Rimini del 1991).

Tra la Conferenza di organizzazione di Firenze e il successivo Congresso di Rimini, le tre componenti interne decidono di sciogliersi, inaugurando una nuova fase nella storia della Cgil. Per la successiva Conferenza d’organizzazione (la quarta) bisognerà attendere solo altri quattro anni (Roma, 9-11 novembre 1993). Il documento finale licenziato proporrà nuove norme in tema di strutture, regole e risorse, allo scopo di favorire la trasparenza dell’organizzazione e la responsabilità dei gruppi dirigenti (vedi le conclusioni di Bruno Trentin in allegato).

Dal 29 al 31 maggio 2008 si tiene a Roma la quinta Conferenza di organizzazione. Alla fine dei suoi lavori vengono approvati due documenti – uno politico e uno organizzativo – e vengono delineate le linee della riforma della Cgil, basate da un lato sulla centralità del lavoro e della persona e, dall’altro, sui grandi nodi della democrazia, dell’autonomia, dell’unità e del pluralismo.

Responsabile Archivio storico Cgil nazionale


16 ottobre 1943: la tragedia del Ghetto

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Il 16 ottobre 1943, alle 5 del mattino, le SS invadono le strade del Portico d’Ottavia, a Roma, e rastrellano 1.024 ebrei, tra cui 200 bambini. Due giorni dopo, 18 vagoni piombati partono dalla stazione Tiburtina alla volta del campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, dove giungono dopo 6 giorni. Solo 15 uomini e una donna (Settimia Spizzichino) faranno ritorno a casa.

Per non dimenticare:

Vittorio Foa - Lettere dalla giovinezza

Giuseppe Di Vittorio a fianco degli ebrei italiani

Il lavoro unito, Reggio Calabria 22 ottobre 1972

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FOTO DELL'ARCHIVIO NAZIONALE CGIL

"A rompere gli indugi furono gli operai dell'Omeca, la fabbrica di Reggio, colpita nella notte da una bomba: 'Voi ve ne andate, noi restiamo qui. Se non la facciamo oggi, la manifestazione, non la facciamo più'. E così, loro in testa, le lettere che componevano la parola Omeca stampate su veri e propri scudi, cominciammo ad avanzare. La piazza di cui ti dicevo si aprì: un clima stranissimo, chi ci salutava a pugno chiuso, chi faceva il saluto romano".

Leggi l'articolo
http://www.rassegna.it/articoli/il-lavoro-unito-reggio-1972

23 ottobre 1956, i fatti di Ungheria e il ruolo di Di Vittorio

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Il 23 ottobre 1956 a Budapest un largo corteo popolare di solidarietà con la rivolta di Poznań, in Polonia, degenera in scontri tra polizia e dimostranti. La notte stessa il governo, presieduto dagli stalinisti Gerö e Hegedüs, viene sciolto. La formazione del governo Nagy non impedisce il divampare della rivolta nella capitale e nel resto del paese.

Il 27 ottobre, di fronte alla decisione dei sovietici di intervenire militarmente in Ungheria, la segreteria della Cgil assume una posizione di radicale condanna dell’invasione destinata a stroncare nel sangue la domanda di democrazia e di partecipazione reclamata dalla rivolta operaia e popolare ungherese e sostenuta dal governo legittimo di Imre Nagy. La condanna non è soltanto dell’intervento militare: il giudizio è netto e investe tanto i metodi antidemocratici di governo di quelle società, quanto l’insufficienza grave dello stesso movimento sindacale di quei paesi.

“La segreteria della Cgil – recita il comunicato ufficiale –, di fronte alla tragica situazione determinatasi in Ungheria, sicura di interpretare il sentimento comune dei lavoratori italiani, esprime il suo profondo cordoglio per i caduti nei conflitti che hanno insanguinato il paese. La segreteria confederale ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi di governo e di direzione politica ed economica antidemocratici, che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari. Il progresso sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico, sono possibili soltanto con il consenso e con la partecipazione attiva della classe operaia e delle masse popolari, garanzia della più ampia affermazione dei diritti di libertà, di democrazia e di indipendenza nazionale”.

“L’evolversi positivo della situazione in Polonia – prosegue il comunicato – ha dimostrato che soltanto sulla via dello sviluppo democratico si realizza un legame effettivo, vivente e creatore fra le masse lavoratrici e lo Stato popolare. La Cgil si augura che cessi al più presto in Ungheria lo spargimento di sangue e che la Nazione ungherese trovi, in una rinnovata concordia, la forza di superare la drammatica crisi attuale, isolando così gli elementi reazionari che in questa crisi si sono inseriti col proposito gli restaurare un regime di sfruttamento e di oppressione. In pari tempo la Cgil, fedele al principio del non intervento di uno Stato negli affari interni di un altro Stato, deplora che sia stato chiesto e si sia verificato in Ungheria l’intervento di truppe straniere”.

Di fronte ai tragici fatti di Ungheria e alla giustificata commozione che hanno suscitato nel popolo italiano, “forze reazionarie tentano di inscenare speculazioni miranti a perpetuare la divisione tra i lavoratori; a creare disorientamento nelle loro file, a ingenerare sfiducia verso le loro organizzazioni per indebolirne la capacità di azione a difesa dei loro interessi economici e sociali. La Cgil chiama i lavoratori italiani a respingere decisamente questa speculazione e a portare avanti il processo unitario in corso nel Paese, per il trionfo dei comuni ideali di progresso sociale, di libertà e di pace”.

Così, anni dopo, Bruno Trentin dirà dell’accaduto (1): “Non è la prima volta che mi accade di rievocare la figura di Giuseppe Di Vittorio, e il suo ruolo in un anno – il 1956 – che rappresenta uno spartiacque nella storia del movimento operaio internazionale. Ma parlarne oggi, in modo non rituale o puramente celebrativo, per me significa riaprire una riflessione critica a tutto campo sulla vicenda del Pci e della sinistra italiana nel dopoguerra. Qui mi limito solo a segnalare questa esigenza, che pure avverto da molto tempo. Non credo di andare fuori tema, dunque, se mi chiedo fino a che punto la sinistra italiana abbia realmente metabolizzato la crisi di una vecchia cultura politica e dei suoi frutti più avvelenati, come la fatale subalternità corporativa delle lotte sociali, il primato del partito, l’impossibilità per il sindacato di esprimersi come soggetto politico […]”.

“È vero che all’VIII Congresso del Pci la formula del sindacato come ‘cinghia di trasmissione’ del partito fu formalmente bandita. Ma certo non fu bandito il principio del primato del partito nei confronti di un sindacato visto – nella migliore delle ipotesi – come apprendistato della politica, quasi ontologicamente inadatto a rappresentare un interesse generale. E sto parlando di un sindacato, la Cgil, che è stato un caso unico in Europa: una confederazione di categorie e di Camere del lavoro. Sono questi dogmi che hanno reso i partiti sempre più delle organizzazioni autoreferenziali, e che, attraverso la cosiddetta ‘delega salariale’ al sindacato, li hanno allontanati da un’indagine viva e profonda dei mutamenti della società civile, indispensabile per ogni strategia politica”.

“Di Vittorio – continua Trentin – ha il merito storico di avere avviato la rottura delle liturgie del leninismo, anche grazie a un’acuta percezione della complessità del processo sociale, che spingeva obiettivamente il sindacalismo confederale in una dimensione politica: le riforme di struttura, le libertà e i diritti del lavoro, l’ampliamento della rappresentanza ai disoccupati e ai sottoccupati. Sono dunque inaccettabili le vulgate che lo relegano nella cerchia dei capipopolo e dei tribuni dall’oratoria trascinante, o che vedono in lui soltanto il grande bracciante autodidatta, ignorando la sua statura – politica e culturale – di grande riformatore, affermatasi quando il Pci era ancora assai lontano dal percepire l’esperienza catastrofica del ‘socialismo reale’. Per un rinnovamento democratico (veramente democratico) delle forze socialiste, allora, occorre anche combattere questa mummificazione della figura di Di Vittorio, e, facendo tesoro della sua lezione, occorre contrastare con fermezza tutte quelle derive culturali che tendono a riproporre una separazione concettuale tra lotta sociale e sedicente ‘vera politica’”.

(1) Il 12 ottobre 2006 si tiene a Roma il convegno “Giuseppe Di Vittorio e i fatti di Ungheria del 1956”. Trentin, impossibilitato a partecipare a causa del brutto incidente in bicicletta occorsogli, invia i propri appunti sul tema stesi durante l’estate (in “L’itinerario di Bruno Trentin. Archivi, immagini, bibliografia, a cura di Sante Cruciani e Ilaria Romeo, Ediesse 2015, pp. 38-39).

Documenti Archivio storico Cgil nazionale – galleria

Per saperne di più:
L'intervento di Bruno Trentin, pubblicato da Rassegna.it nel 2006
Giuseppe Di Vittorio: la voce dei lavoratori (GUARDA IL VIDEO)

1956 Di Vittorio e l’Ungheria - leggi
tratto da "Di Vittorio a memoria", a cura di Angelo Ferracuti e Mario Dondero, supplemento al n.41/2007 di Rassegna Sindacale

*Responsabile Archivio storico Cgil Nazionale

27 ottobre 1955: bomba a corso Italia. La Cgil: chi li paga?

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Nella notte tre il 26 e il 27 ottobre 1955 la sede della Cgil, in corso d’Italia 25, subisce un attentato terroristico. Così il giorno dopo Giuseppe Di Vittorio riferirà alla Camera dei deputati: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, come avrete potuto apprendere dalla stampa, questa notte alle 2,25 un attentato dinamitardo è stato compiuto contro la sede della Confederazione italiana generale del lavoro all’ingresso di via Pinciana, ingresso secondario posteriore a quello principale”.

Ignoti teppisti politici, prosegue il leder della Cgil, “hanno depositato e fatto esplodere una grossa bomba. L’esplosione ha provocato danni ingenti: la porta presso cui era stata depositata la bomba è stata divelta e frantumata completamente. Gli abitanti nelle sale adiacenti al cortile presso la porta, cioè l’autista della Confederazione del lavoro, Antonio Riccardi e i suoi familiari, sono stati sorpresi nel sonno, scossi violentemente, gettati a terra. I mobili dell’abitazione sono stati ugualmente spostati, violentemente gettati, alcuni divelti, tutti i vetri dello stabile a cinque piani sono andati in frantumi, come i vetri degli stabili vicini. Una scheggia del legno della porta si è conficcata per parecchi centimetri in un mobile della casa, per cui si può considerare che se una persona si fosse trovata a quell’ora presso quel mobile, poteva essere uccisa. Se, dunque, questa esplosione non ha determinato vittime umane, è stato per puro caso […]”.

Ferma la richiesta di Di Vittorio: “Noi domandiamo che il governo si decida e colpisca inflessibilmente, come giustamente, non soltanto gli autori materiali, gli esecutori, ma anche i mandanti. Nessuno può affermare che in Italia un qualsiasi movimento fascista abbia mezzi sufficienti, mediante le quote dei propri associati, per poter vivere, pubblicare giornali e acquistare e preparare tritolo a volontà per compiere attentati. V’è chi paga! Bisogna scoprire chi paga! E la coscienza pubblica sa chi sono i finanziatori di questi movimenti che minacciano le libertà conquistate a caro prezzo dal nostro popolo. Noi auspichiamo che tutte le parti politiche, tutti i democratici d’Italia, di ogni scuola e di ogni opinione, aprano gli occhi alla realtà, vedano il vero pericolo e si uniscano; noi auspichiamo, di fronte a questo attentato, la più vasta unità e solidarietà tra tutti gli antifascisti e i democratici, per fronteggiare il pericolo e mettere coloro che minacciano le nostre libertà e intendono terrorizzare i lavoratori e le loro organizzazioni nella condizione di non poter nuocere né ai lavoratori, né all’ Italia, né alla democrazia italiana”.

Il segretario della Cgil rivolge quindi un appello all’unità delle forze democratiche e antifasciste, che devono “isolare coloro che minacciano le libertà italiane, deve metterli in condizione di non poter più pensare ad una ripresa di metodi che tutto i1 popolo italiano ha condannato e ripudiato”. “L’antifascismo unito, onorevoli colleghi, ha fatto la nuova Italia, l’antifascismo unito deve consolidare l’ordinamento democratico dello Stato, sviluppare le libertà democratiche del nostro paese, aprire un avvenire migliore, più sicuro e tranquillo, ai nostri lavoratori ed al nostro popolo tutto. Perciò è bene che tutti i democratici si associno alla nostra protesta contro gli attentatori e chiedano con noi che siano perseguiti, e si prendano le misure adeguate per rendere impossibile il ritorno a quell’atmosfera a cui l’attentato di questa notte fa pensare e di cui costituisce un episodio. […] Se poi si vuole, con attentati del genere, terrorizzare la Confederazione del lavoro e i lavoratori italiani, per impedir loro di continuare a lottare nella difesa dei loro diritti ed interessi vitali, dobbiamo dire, non tanto agli esecutori quanto ai mandanti di questi crimini, che si sbagliano fortemente” (LEGGI TUTTO).

Numerose le manifestazioni di solidarietà e sdegno per l’accaduto indirizzate alla Cgil consultabili presso l’Archivio storico nazionale (Atti e corrispondenza 1955, b. 5, fasc. 113, “Attentato alla sede della Cgil”). Fra i documenti conservati segnaliamo la lettera, anonima, che riportiamo nella sua interezza. Non solo. L’Archivio storico Cgil nazionale conserva anche (Atti e corrispondenza 1957, b. 7, fasc. 122, “Attentato alla sede Cgil. Atti istruttori”) la documentazione istruttoria relativa alla vicenda generata dal Tribunale di Roma.

GALLERIA FOTOGRAFICA - FOTO ARCHIVIO STORICO CGIL NAZIONALE

* Responsabile Archivio storico Cgil nazionale

La bandiera è caduta

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Il 3 novembre 1957 muore a Lecco Giuseppe Di Vittorio. Lo ricordiamo attraverso le parole di Gianni Toti, direttore del Lavoro (in quegli anni giornale rotocalco della Cgil) dal 1952 al 1958*. “[…] Ora gli rendiamo omaggio così – scrive Toti –. Testimoniando per lui, riinterrogando la sua anima consegnata agli uomini, parlando con gli uomini, rileggendoLo, ricostruendoLo ancora nelle fotografie di tutta una vita riportate alla luce dalla polvere degli archivi, ripensandoLo negli scritti, negli articoli, nei Suoi libri, ripercorrendo le strade da Lui percorse, da Cerignola a New York a Lipsia, scorrendo i messaggi telegrafici che arrivano da tutto il mondo, e non solo dalle organizzazioni affiliate alla Fsm, dall’Africa nera alle isole dei Caraibi, all’arcipelago delle Antille (ché il bracciante di Cerignola era diventato ‘sindacalista del mondo’)”.

Continua Toti: “Rileggiamo Di Vittorio. Gli articoli di Avanguardia Pugliese (i Suoi orgogliosi corsivi, di risposta agli agrari, intitolati; “Sì, io sono un cafone di Puglia!”). I saggi su Stato Operaio, i fondi su La voce degli italiani, i libri pubblicati a Parigi sotto lo pseudonimo di Mario Nicoletti (“Le fascisme contre le paysan. L’esperience italienne”, del 1929, che ci è ritornato sotto gli occhi in questi giorni come una scoperta preziosa: gli altri introvabili forse, o da ricercare pazientemente)”. Il direttore del Lavoro si sofferma poi sul clima che accompagna a Milano la presenza della salma di Di Vittorio, nella camera ardente allestita nella sede della Cgil: “Davanti alla Camera del lavoro di Milano, fra i segni del dolore fraterno, dove il pugno chiuso e il segno della croce parlano lo stesso silenzioso linguaggio di unità, si ferma improvvisa una camionetta della Celere. I lavoratori non la degnano di sguardi, la ignorano. Dalla camionetta scende un gruppo di poliziotti, due o tre ufficiali. Recano una corona, mazzi di fiori. Rispondono: è a nome di un gruppo di militi e di ufficiali della Celere, non chiedeteci altro. Di Vittorio difendeva anche noi. Diceva che tra i lavoratori non ci sono nemici. Scusateci, nient’altro. Poi la camionetta riparte, veloce. I fiori della Celere si mescolano ai fiori dei lavoratori. Questo era Di Vittorio. Un seminatore che aveva seminato in tutti i campi”.

Da Milano a Roma: “A Corso d’Italia, nella chiesetta laica improvvisata nella sede della Cgil prosegue il racconto di Toti –, un vecchio operaio meridionale si getta sulla bara, singhiozzando. Grida, a coloro che lo trascinano via: ‘È finito lu cafone, è finito’. Ed è finito davvero, il cafone meridionale che mangiava ‘acqua e sale’ nella ‘cafoneria’ e si toglieva il cappello quando passava l’agrario, sublimato dalla crescita umana del cafone Peppino e del movimento, oggi adulto, che lo aveva ‘costruito a sua immagine e somiglianza’. Chè oggi i ragazzi di Cerignola che hanno l’età che Peppino aveva quando studiava al lume della candela nella ‘cafoneria’ tra i braccianti addormentati, sanno quanto alto e libero può salire il cafone del Sud assieme all’operaio del Nord, promosso cittadino di una Repubblica del lavoro, riscattato per sempre. Se ne è fatta, di strada, da allora...”. Ma non solo lavoratori. “Dirigenti d’azienda, tecnici, ingegneri hanno salito in questi giorni le scale delle organizzazioni sindacali. Hanno detto anche loro: e adesso, chi ci difende? Chi ci aiuta, ora? E che cosa accadrà? Gli operai sono sgomenti, hanno ripetuto, e penoso è guardarli negli occhi”.

Sgomento, è vero sbigottimento. “Di Vittorio è morto e nessuno forse potrà mai più sostituirlo nel cuore degli italiani, prendere quel posto che vi occupava, dove affondava radici col diritto del buon seme. Ma lo sgomento dei primi giorni sta già trasformandosi in una dolorosa eppure costruttrice presa di coscienza. Così totale, così unanime il dolore dei lavoratori che già appare come una forza nuova, un rinascere di Giuseppe Di Vittorio nella testimonianza unitaria del dolore”. “Tutti insieme, forse... – argomenta ancora Toti –. Abbiamo sentito ripetere spesso questa frase, durante i funerali. Tutti insieme certamente: si risponde già. E non è stato forse il movimento a costruirsi ‘a sua immagine e somiglianza’ il suo dirigente? E il dirigente sorto dal popolo non era forse popolo egli stesso, fatto di tutti noi? Certo, non sarà facile. Dovremo lavorare meglio, studiare di più, più lucidamente e più democraticamente discutere, raccogliere le forze e saggiamente disporne. Ma niente è più falso della ipocrita considerazione propagandistica svolta dai giornali dell’avversario, secondo la quale la morte di Di Vittorio provocherà una crisi catastrofica nel movimento sindacale unitario. Sarà proprio la coscienza del vuoto profondo che Di Vittorio lascia nelle file del movimento che potrà trasformarsi in una spinta più forte, che scaturisca dalle correnti sotterranee e creative dello spirito popolare”.

Conclude il giornalista del Lavoro: “Conosceranno presto i nostri avversari le notizie delle iniziative che i lavoratori hanno preso e prenderanno per onorare nel modo migliore, nel modo che Di Vittorio avrebbe voluto, la memoria del capo scomparso. Noi sappiamo già degli impegni presi per il tesseramento, delle riunioni già svolte, dei fatti già avvenuti. Non sembrino misure burocratiche, fredde iniziative di prammatica. C’è dietro il dolore per la perdita immensa e la coscienza del compito più grave e pesante che incombe a tutto il movimento. È il testamento morale, sindacale e politico di Di Vittorio che comincia ad essere letto sulle pagine degli ordini del giorno che la storia detta con parole quotidiane e semplici significati. Dobbiamo essere più forti di prima proprio perché Lui ci ha lasciato. La bandiera è caduta. Raccogliamo la bandiera. Proseguiamo”.

Ilaria Romeo, Responsabile Archivio storico Cgil nazionale

*Da “Il suo testamento”, in Lavoro, 17 novembre 1957.

 

APPROFONDISCI:

Dal patto della Domus Mariae al decreto di San Valentino

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Dal marzo ’68 – favorito in modo sostanziale dalle rilevanti conquiste operaie nella contrattazione aziendale in tema di organizzazione del lavoro, ambiente di lavoro e delegati sindacali – riprende il dialogo tra Cgil, Cisl e Uil. Rassegna Sindacale segue da vicino il “processo unitario”, dedicandogli diversi articoli (“Pensioni: la forza e l’unità della giornata nazionale di lotta”; “I telegrammi unitari dalle fabbriche alla Cgil”). Il 14 novembre 1968 le tre confederazioni tornano a scioperare per la prima volta insieme dai tempi delle scissioni (“Dopo vent’anni”, editoriale di Fernando Montagnani).

Il confronto prosegue in modo serrato e tra l’ottobre 1970 e il novembre 1971 si tengono a Firenze tre riunioni che di fatto scandiranno il percorso verso l’unità: Firenze 1, 26-29 ottobre 1970; Firenze 2, 1-2 febbraio 1971; Firenze 3, 22-24 novembre 1971 (“L’ordine del giorno approvato”, 24 novembre 1971). Il 3 luglio 1972 viene siglato (alla Domus Mariae di Roma) il Patto federativo, una via di mezzo tra l’unità organica e il mantenimento dello status quo: “Cgil, Cisl e Uil – si legge nel Patto – di fronte alle difficoltà insorte in ordine ai modi e ai tempi di conclusione del processo unitario, previsti nella riunione di Firenze dell’autunno scorso, confermando l’obiettivo dell’unità sindacale quale esigenza irrinunciabile per assicurare una più valida e completa difesa degli interessi dei lavoratori e per rafforzare le basi del sistema democratico, convengono sulla necessità di realizzare un patto che salvaguardando, consolidando ed estendendo il patrimonio unitario acquisito, dia permanente certezza all’unità d’azione in funzione dell’unità organica di tutti i lavoratori”.

FOCUS, Buon compleanno Rassegna

A tal fine, prosegue il testo del Patto federativo, “decidono di costituire, con carattere di transitorietà e quale mezzo per il raggiungimento dell’obiettivo, una federazione tra le confederazioni articolata ai vari livelli, con prerogative delegate e organi propri, ferma restando la piena sovranità dì ogni confederazione per le materie non delegate. La federazione è denominata Federazione Cgil, Cisl, Uil (…)”. Ancora una volta, il settimanale di corso d’Italia dedica ampio spazio alle vicende che accompagnano il ritrovato dialogo tra le tre confederazioni sindacali (“La Cgil ha approvato il Patto federativo”; “Il testo del Patto federativo”). Nel 1977 i congressi confederali (quello della Cgil, il IX, si tiene a Rimini dal 6 all’11 giugno) rinviano l’unità organica a data da destinarsi (“È prevalsa l’unità”, editoriale di Agostino Marianetti).

Il 13-14 febbraio 1978 l’Assemblea unitaria dei quadri e dei delegati sindacali riunitasi a Roma, nel quartiere dell’Eur, ufficializza la svolta di politica economica decisa dalla Federazione, centrata sulla moderazione salariale, sulla maggiore mobilità del lavoro, sull’accordo con le imprese in tema di licenziamenti (“Sacrifici proporzionali”, editoriale di Luciano Lama). La strategia dell’Eur sarà duramente colpita non solo dall’opposizione della base operaia, che pure ci fu e si fece sentire, ma anche dal fatto che, a un mese di distanza, il paese sarà paralizzato dalla notizia del rapimento di Aldo Moro (“Mobilitare tutte le forze per sconfiggere il terrorismo e garantire le istituzioni democratiche”).

Nella riunione di segreteria del 21 aprile 1978 la Cgil esclude “la possibilità di una valutazione unitaria della Federazione” Cgil-Cisl-Uil  in merito alla questione relativa alla possibilità o meno di una trattativa con i brigatisti da parte dello Stato (in realtà, alla fine della riunione la segreteria registrerà l’impossibilità generale di una presa di posizione anche singola). Saranno per l’Italia e per il sindacato anni difficili: Moro, Guido Rossa, Ustica, Bologna, Danzica. In questo clima di tensioni sociali si apre – e si chiude – a Torino la vertenza alla Fiat (“Alla fine di 35 giorni drammatici”). Il 14 ottobre 1980 lavoratori, quadri e dirigenti Fiat si muovono in corteo per le strade di Torino, dando vita a una vera e propria manifestazione contro il sindacato (la famosa “marcia dei quarantamila”). L’impatto emotivo è enorme e il sindacato accusa il colpo.

Durante i lavori dell’Assemblea nazionale dei quadri e dei delegati (unitaria), tenuta nel marzo 1981, così come nei congressi delle confederazioni celebrati lo stesso anno, i rapporti tra Cgil, Cisl e Uil si fanno sempre più tesi. Già dal 1982 comincia a circolare l’ipotesi di un aggiustamento della scala mobile contro l’inflazione. Il 1° giugno gli industriali decidono la disdetta dell’accordo Lama-Agnelli del 1975. Il sindacato risponde con gli scioperi generali del 2 e del 25 giugno (Rassegna Sindacale, 10 giugno 1982). Per alcuni mesi il timore di nuove divisioni sembra essere scongiurato, ma la discussione per la legge finanziaria 1984 mette nuovamente in evidenza crepe e spaccature.

Il 12 febbraio 1984 il governo formalizza la proposta di un ulteriore taglio alla scala mobile (Protocollo d’intesa presentato dal governo alle parti sociali, 12 febbraio 1984). La Cgil si spacca in tre, all’interno e all’esterno (Comitato direttivo Cgil, Roma 13 febbraio 1984). Il 14 febbraio viene firmato un accordo separato, pratica ormai in disuso da circa trent’anni. Per superare la frattura sindacale il governo interviene d’urgenza attraverso lo strumento del decreto legge. Contro il decreto di San Valentino la Cgil si mobilita. Il 24 marzo la maggioranza della confederazione organizza a Roma un’imponente manifestazione cui partecipa circa un milione di persone (Rassegna Sindacale, 16 marzo 1984; Rassegna Sindacale, 23 marzo 1984; Rassegna Sindacale, 30 marzo 1984).

A maggio il decreto viene convertito in legge. Agli oppositori rimane adesso un’unica arma: il referendum. La raccolta firme è promossa dal Pci e da Democrazia proletaria, mentre la Cgil, immersa nella grave crisi dovuta alla spaccatura con i socialisti e al collasso della Federazione unitaria, assume una posizione attendista. Il referendum si terrà nel giugno 1985. Vincerà, con una differenza di circa l’8%, il no (“Dopo il 9 giugno può vivere il sindacato senza autonomia e strategia unitaria?”; “No. E adesso? L’unità per rispondere alle sfide”).

Ilaria Romeo è responsabile dell’Archivio storico Cgil nazionale

Sessanta anni fa l’ultimo congresso di Giuseppe Di Vittorio

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Il 27 febbraio 1956 inizia a Roma il IV Congresso nazionale della Cgil, che approva l’istituzione delle sezioni sindacali aziendali, lanciata durante la prima Conferenza di organizzazione del dicembre 1954 (le Conferenze di organizzazione nella storia della Cgil). Di Vittorio prende per la prima volta la parola in pubblico dopo l’infarto che lo aveva colto alla fine dell’anno precedente, affermando: “Amici e compagni delegati! (…) Mi sia consentito di esprimere i miei più vivi ringraziamenti a tutte le organizzazioni e a tutti i lavoratori d’Italia e di numerosi altri Paesi che in questa dolorosa occasione hanno voluto farmi giungere i loro fraterni auguri”.

Un ringraziamento “particolarmente caloroso”, il segretario generale della Cgil lo rivolge dunque “alla Federazione sindacale mondiale e al suo segretario generale, mio carissimo compagno e amico Louis Saillant, il quale ha voluto rinnovarmi, anche qui, i suoi fraterni auguri. Vi confesso che queste manifestazioni di stima e di affetto venute da ogni parte mi sono state di grande conforto. Vada a tutti la mia profonda e fraterna gratitudine”.

“Ho chiesto la parola – prosegue Di Vittorio – col proposito limitato, date le mie condizioni, di fissare brevemente alcuni punti fermi che mi sembrano risultare evidenti nel nostro Congresso. Il primo punto fermo è rappresentato indubbiamente dalla incrollabile fedeltà di circa 5.000.000 di lavoratori italiani di ogni corrente alla nostra grande, unita Cgil. Questa nostra unità, fondata sulle comuni rivendicazioni economiche e sociali di tutti i lavoratori, e cementata da lunghi anni di lotte comuni, esce maggiormente rafforzata da questo nostro quarto Congresso”.

La Cgil, oltre che una grande forza unitaria, “è centro motore dei fermenti unitari che vanno sviluppandosi in tutti gli strati del popolo italiano. Da ciò deriva l’obbligo per noi, compagni, di bandire dalle nostre file ogni residuo di settarismo, di assumere dovunque un franco atteggiamento di mutua comprensione e di collaborazione verso i lavoratori e militanti sindacali delle altre organizzazioni, di svolgere una costante attività unitaria capillare nelle fabbriche, nelle aziende agricole, negli uffici, nei servizi, come nelle città e nei villaggi, perché tutte le lotte per giuste rivendicazioni operaie, per i diritti del lavoro, per le giuste e sacrosante esigenze del popolo, siano condotte unitariamente, essendo l’azione unita la più forte garanzia del successo”. 

“No, l’Italia non andrà indietro, andrà avanti, perché avanti sarà portata dalle forze sane del lavoro – conclude il suo intervento Di Vittorio –. Sì, noi porteremo avanti la nostra patria sulla via del progresso e del benessere, della pace, della libertà, dell’amicizia tra tutti i popoli della terra. Avanti Cgil; per portare avanti la nostra Italia verso la conquista sempre superiore e più alta di benessere e di civiltà!” (LEGGI TUTTO).

MATERIALI
- Foto documentario sul IV Congresso della Cgil, da “Lavoro” (download)
- Con i delegati stranieri (video: Formazione sindacale: come eravamo)
- I Congressi della Cgil: una cronologia
- Dall’Archivio storico della Cgil (download)

Ilaria Romeo è responsabile dell’Archivio storico Cgil nazionale


Genova, 25 aprile: la città è già stata liberata

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Genova è l’unico caso in Europa in cui un corpo d’armata tedesco si sia arreso a formazioni partigiane: quando le truppe alleate arrivarono in città, la trovarono già liberata e avviata verso la normalità. L’Archivio storico Cgil nazionale conserva due importanti documenti relativi all’accaduto: l’atto di resa del generale tedesco Gunther Meinhold e dei suoi soldati sottoscritto dall’operaio Remo Scappini, presidente del Comitato di liberazione nazionale della Liguria il 25 aprile 1945, e la cronaca (anonima) dattiloscritta delle giornate precedenti la resa.

Una copia di questo importante documento fu donata alla Cgil dal sindaco di Genova Gelasio Adamoli, in occasione del secondo Congresso confederale (4-9 ottobre 1949) con la seguente dedica: “Alla Cgil: Genova partigiana, orgogliosa di ospitare il secondo Congresso nazionale unitario. Gelasio Adamoli”. Lo stesso documento è attualmente esposto nella sala riunioni della segreteria presso la sede nazionale della Cgil in corso d’Italia 25.

In Genova il giorno 25 aprile 1945 alle ore 19:30, tra il sig. Generale Meinhold, quale Comandante delle Forze Armate Germaniche del settore Meinhold, assistito dal Capitano Asmus, Capo di Stato Maggiore, da una parte; il Presidente del Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria, sig. Remo Scappini, assistito dall’avv. Errico Martino e dott. Giovanni Savoretti, membri del Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria e dal Maggiore Mauro Aloni, Comandante della Piazza di Genova, dall’altra; è stato convenuto:

1. Tutte le Forze Armate Germaniche di terra e di mare alle dipendenze del sig. Generale Meinhold si arrendono alle Forze Armate del Corpo Volontari della Libertà alle dipendenze del Comando Militare per la Liguria;

2. la resa avviene mediante presentazione ai reparti partigiani più vicini con le consuete modalità e in primo luogo con la consegna delle armi;

3. il Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria si impegna ad usare ai prigionieri il trattamento secondo le leggi internazionali, con particolare riguardo alla loro proprietà personale e alle condizioni di internamento;

4. il Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria si riserva di consegnare i prigionieri al Comando Alleato anglo-Americano operante in Italia”.

Del documento con la cronaca delle vicende dei giorni precedenti la Liberazione di Genova – consultabile nella sua interezza presso l’Archivio storico Cgil nazionale – riproduciamo, in esclusiva, la prima pagina (di sette).

Ai primi di marzo del 1945 il Gen. Meinhold, comandante tedesco della Piazza di Genova e del settore che si estendeva da levante a Voltri e all’interno fino a Savignone, lasciava intendere al prof. Antonio Giampalmo, assistente all’Istituto di Anatomia patologica dell’Università di Genova, col quale era in rapporti di amicizia, che sarebbe stato disposto, per meglio concretare il suo desiderio di risparmiare la città in caso di guerra combattuta, a eventuali contatti con qualche membro accreditato delle forze patriote”.

Fu così che il Giampalmo interpellò il prof. Carmine Alfredo Romanzi (scienziato, rettore dell’Università di Genova e presidente della Conferenza dei rettori europei, tra i protagonisti della firma dell’atto di resa delle truppe tedesche nelle mani del Cln Liguria il 25 aprile 1945, insignito di medaglia d’argento al valor militare, cittadino onorario della città di Genova, ndr), assistente all’Istituto d’igiene dell’Università, rappresentante del Partito d’Azione nel C.L.N. dei Medici e nel C.L.N. della Scuola Universitaria, chiedendogli se fosse stato a sua volta disposto ad incontrarsi col comandante tedesco”.

Il Romanzi rispose che avrebbe riferito e chiesto al C.L.N. della Liguria l’autorizzazione. Il 3 aprile il Romanzi poteva incontrarsi con l’avv. Mario Cassiani Ingoni (Carrara), rappresentante del Partito d’Azione nel C.L.N. Liguria, al quale riferiva e chiedeva istruzioni. Due giorni dopo l’avv. Cassiani rispondeva al Romanzi che il C.L.N. come organo politico, non poteva consentire alcuna trattativa, ma che egli avrebbe dovuto rivolgersi al Comando Militare Regionale. Romanzi si mise allora in relazione con questo comando attraverso l’avv. Giovanni Trombetta (Col. Tomasi), vice comandante militare regionale, e il rag. Giuseppe Ferrari (T. Col. Negrini), vice comandante della Piazza di Genova, i quali lo autorizzarono a prendere i contatti”.

Fu così che l’11 aprile 1945 alle ore 22 il gen. Meinhold e il prof. Romanzi si incontrarono all’Istituto di Anatomia Patologica dell’università a San Martino. Il colloquio si protrasse fino alle due del mattino: in esso si ebbe un primo scambio di idee e furono fatte varie proposte, tra cui principalmente quella di concordare una ritirata indisturbata delle truppe tedesche dalla zona con una progressiva sostituzione delle forze partigiane, che Romanzi si riservava di sottoporre all’approvazione del Comando militare regionale. In questo colloquio il Gen. Meinhold assicurò il Romanzi che nessun’altra trattativa era in corso. I risultati del colloquio vennero trasmessi al Comando Militare regionale il quale incoraggiò il Romanzi a continuare le trattative. Si ebbe un secondo colloquio fra il gen. Meinhold, il capo di Stato Maggiore tedesco Asmus e il dott. Romanzi, presente il prof. Giampalmo [… segue]”.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

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Il 25 aprile di Bruno Trentin

1948, l’attentato a Togliatti nelle carte della Cgil

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La mattina del 14 luglio 1948, il segretario generale del Pci Palmiro Togliatti viene ferito dai colpi di pistola sparati dal giovane studente siciliano Antonio Pallante. Il Paese è percorso da una scossa elettrica: operai e contadini scendono in piazza, parte lo sciopero generale, prima spontaneo e poi ufficiale. Giuseppe Di Vittorio, membro della delegazione che ha partecipato alla XXXI Conferenza del Bureau International du Travail di San Francisco (California), rientra a Roma la mattina stessa dell’attentato. 

Il comitato esecutivo della Confederazione si riunisce soltanto nel pomeriggio del 14 e con la presenza del segretario generale sanziona lo sciopero già in atto, senza fissarne per il momento il termine. “Di fronte a una situazione così grave che minaccia di riaprire nel nostro Paese prospettive di sangue e di insopportabile oppressione – si legge nel Manifesto della Cgil agli italiani per lo sciopero generale – la Cgil vi invita a lottare uniti attorno alla vostra organizzazione, solo strumento unitario che possa difendere il nostro popolo dagli attentati contro la libertà e contro la democrazia. Tutti i lavoratori parteciperanno allo sciopero: il comitato esecutivo della Confederazione generale italiana del lavoro, che siede in permanenza, impartirà nella giornata di domani ulteriori disposizioni. I lavoratori italiani sapranno difendere vittoriosamente la democrazia, la libertà, la Repubblica!”.

“Tutti i lavoratori di tutte le categorie – sanciscono le istruzioni per lo sciopero diramate dalla Confederazione – entreranno in sciopero alla mezzanotte di oggi mercoledì 14 luglio. Alle ore 6 cesserà completamente il servizio ferroviario. I lavoratori addetti alla panificazione, al rifornimento ed alla distribuzione del latte, ai servizi ospedalieri e telefonici, sono esentati dallo sciopero. I negozi di generi alimentari rimarranno aperti fino a Mezzogiorno. Gli elettrici sciopereranno dalle 8 alle 20, con sospensione per tutti gli utenti. I salariati addetti al bestiame eseguiranno un solo governo nella giornata ed attenderanno alla normale mungitura del bestiame. Mezzadri, coloni e coltivatori diretti eseguiranno i soli lavori di stalla. La Cgil invita tutte le Camere confederali del lavoro a pubblicare nella giornata di domani il giornale locale sindacale o un bollettino di sciopero”.

L’ordine di cessazione dello sciopero sarà comunicato nella notte del 15 luglio e approvato all’unanimità (Canini e Parri si astengono sull’ultimo capoverso, assenti i membri democristiani): “Il comitato esecutivo della Cgil rileva con soddisfazione l’imponente ed unanime adesione, in tutta Italia, allo sciopero generale contro il vile attentato compiuto da un sicario sulla persona dell’on. Palmiro Togliatti. L’attentato costituisce un attacco delle forze reazionarie contro le masse popolari che hanno arditamente lottato per abbattere il fascismo e conquistare le libertà democratiche e l’indipendenza nazionale. Il comitato esecutivo rivolge un reverente saluto a tutte le vittime di questa lotta, provocata dall’atmosfera di divisione e di odio creata nel Paese dal risveglio delle forze reazionarie. Lo sciopero generale – attuato spontaneamente e con ammirevole slancio da tutti i lavoratori italiani non appena conosciuta la notizia dell’infame attentato, e sanzionato dalla Cgil – costituisce una conferma manifesta della decisa volontà delle masse lavoratrici e democratiche di opporsi risolutamente all’offensiva della reazione”.

Prendendo atto di questa “indomabile volontà delle masse popolari ed auspicando che l’on. Palmiro Togliatti possa riprendere ben presto il suo posto di combattente antifascista”, il comitato esecutivo della Cgil decide “la cessazione dello sciopero generale per le ore 12 di venerdì 16 corrente. Il comitato esecutivo rileva che la pronta e vigorosa risposta delle masse ai crimini della reazione ha posto davanti al Paese il problema di mutare radicalmente una politica che rappresenta un incoraggiamento alle forze padronali e reazionarie e che ha reso possibile il delitto deprecato da tutto il popolo italiano e da tutto il mondo civile”.

Ai lavoratori milanesi che vogliono continuare la lotta, la segreteria confederale invia il seguente messaggio: “Lavoratori milanesi! La Cgil vi esprime la sua simpatia e la sua ammirazione per lo slancio unanime col quale voi avete scioperato, per manifestare il vostro sdegno contro il vile attentato compiuto a tradimento sulla persona dell’indomito combattente della libertà Palmiro Togliatti e contro la politica liberticida che ha armato la mano dell’infame sicario fascista. Con lo sciopero generale, attuato con ammirevole compattezza in tutta l’Italia, la Cgil ed i lavoratori italiani hanno posto davanti al Paese il grave problema d’un radicale mutamento della politica interna del governo, perché le libertà democratiche ed i diritti sociali conquistati dai lavoratori, e sanciti nella Costituzione, siano effettivamente rispettati e perché siano annientati i focolai di reazione ed i sedimenti di fascismo che tramano contro la libertà del popolo”.

Una lotta, quella per la libertà, che – a giudizio della Cgil – “non può esaurirsi in una sola battaglia”. “Lo sciopero generale – continua il messaggio ai lavoratori milanesi – ha espresso la volontà unanime delle masse popolari italiane di opporsi con vigore e decisione ad ogni conato di reazione e di fascismo. Uno sciopero così compatto costituisce già una prima vittoria. Lo sciopero è cessato, ma la nostra lotta per la libertà continua. Ciò che occorre ai lavoratori è la compattezza e la disciplina. E voi, lavoratori milanesi, che siete stati sempre alla avanguardia del movimento operaio e democratico italiano, dovete comprenderlo prima degli altri. Non prestatevi a nessuna manovra di divisione e di indebolimento della disciplina sindacale. Abbiate fiducia nella vostra grande Cgil e nella vostra forte ed indomita Camera del lavoro”.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

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Quando Di Vittorio rivalutò la figura di Rinaldo Rigola

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La Confederazione generale del lavoro (CGdL) nasce in occasione del primo congresso di Milano del 29 settembre-1° ottobre 1906. Il primo segretario generale è il riformista Rinaldo Rigola, già in precedenza a capo del Segretariato centrale della resistenza, struttura costituita nel 1902 con l’obiettivo di trovare la sintesi politica tra le spinte radicali dei rivoluzionari, che guidavano gran parte delle Camere del lavoro, e le posizioni moderate dei riformisti, a capo delle principali federazioni di mestiere e industriali.



Contratto di lavoro fra la Confederazione generale del lavoro e Rinaldo Rigola, Torino, dalla sede della CGdL, 4 gennaio 1911. Rigola viene assunto per compiere le funzioni di segretario generale della Confederazione

Il 4 gennaio 1927, in seguito ai provvedimenti emessi dal fascismo, il vecchio gruppo dirigente della CGdL, tra cui Rinaldo Rigola e Ludovico D’Aragona, decide l’autoscioglimento dell’organizzazione. Contro tale decisione Bruno Buozzi ricostituisce nel febbraio 1927 a Parigi la CGdL. Nello stesso mese, durante la prima conferenza clandestina di Milano, i comunisti danno vita alla loro Confederazione generale del lavoro.

Di fronte alle leggi fascistissime, che aboliscono le libertà politiche e sindacali, Rigola non assume atteggiamenti di aperta rottura: fonda, anzi, un’Associazione nazionale per lo studio dei problemi del lavoro (con compiti culturali e assistenziali), giudicata dagli antifascisti un atto di collaborazione con il regime. Il suo atteggiamento susciterà reazioni molto aspre, che non si spegneranno nemmeno nel secondo dopoguerra.

Dopo il fallimento della sua associazione, la cui attività si esaurisce nel giro di un paio di anni, Rigola si ritira a vita privata. L’ostracismo nei confronti della sua persona, viene interrotto solo molti anni più tardi – il 2 febbraio 1953, il giorno dell’ottantacinquesimo compleanno del primo segretario della confederazione – da Di Vittorio. Nel messaggio di augurio che a nome della Cgil gli invia, il sindacalista di Cerignola, pur non tacendo le divergenze profonde che c’erano state, riconosce a Rigola il ruolo di pioniere nella fondazione del sindacato italiano e il suo “lavoro intenso, proficuo e intelligente, al servizio dei lavoratori”.

Lo sviluppo del movimento operaio e sindacale italiano come degli altri paesi – afferma il segretario generale della Cgil – è stato caratterizzato dal sorgere da varie correnti in dissenso tra di loro. È accaduto perciò che noi abbiamo avuto sovente – ed abbiamo tuttora – posizioni differenti da quelle da te assunte e difese con assoluto disinteresse (a Rigola gli avversari, da ogni sponda, riconobbero comunque sempre una profonda onestà personale – dal fascismo non ebbe nulla! – e intellettuale, oltre che una statura culturale superiore alla media). Vi è stato un periodo della storia del nostro movimento, in cui il tuo atteggiamento è stato in profondo contrasto con quello nostro. Ma questi dissensi e questi contrasti non possono diminuire i sentimenti di gratitudine”.

Il riconoscimento morale arriva a Rigola insieme a un sostegno economico da parte della Cgil quando Di Vittorio viene per caso a sapere delle serie difficoltà in cui vive. “Sono veramente dolente – dirà Di Vittorio – di non aver conosciuto prima come stavano esattamente le cose e di non aver avuto, quindi, la possibilità di venire in suo aiuto”. L’atto di profonda umanità di Giuseppe Di Vittorio è condiviso da altre personalità della Cgil, a cominciare dal socialista Ferdinando Santi, segretario generale aggiunto della confederazione.

Scrive Santi a Rigola il 13 febbraio 1953: “Caro Rigola, so che il compagno Di Vittorio, segretario generale della Cgil, verrà domani a farti visita. Avrei dovuto essere con lui, ma purtroppo ne sono impossibilitato. Devo infatti essere a Livorno per partecipare ad un Convegno sindacale che, già rinviato una volta, non può essere nuovamente rimandato. Mi spiace quindi di non essere domani a Milano per poter salutare in te il pioniere del sindacalismo italiano al quale tutti noi tanto dobbiamo. Spero di poterlo fare in una prossima occasione, se ciò non sarà di eccessivo disturbo per te. Ti prego di gradire l’espressione dei miei cordiali sentimenti”.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

Di Vittorio e il ’56 ungherese, la resa dei conti

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Il 23 ottobre 1956 a Budapest un largo corteo popolare di solidarietà con la rivolta di Poznań, in Polonia, degenera in scontri tra polizia e dimostranti. La notte stessa il governo, presieduto dagli stalinisti Gerö e Hegedüs, viene sciolto. La formazione del governo Nagy non impedisce il divampare della rivolta nella capitale e nel resto del Paese. Il 27 ottobre, di fronte alla decisione dei sovietici di intervenire militarmente in Ungheria, la segreteria della Cgil assume una posizione di radicale condanna dell’invasione, destinata a stroncare nel sangue la domanda di democrazia e di partecipazione reclamata dalla rivolta operaia e popolare ungherese e sostenuta dal governo legittimo di Imre Nagy. La condanna non è soltanto dell’intervento militare: il giudizio è netto e investe tanto i metodi antidemocratici utilizzati dai governi dei Paesi dell’Est Europa, quanto l’insufficienza grave delle stesse organizzazioni del movimento sindacale.

Nella stessa giornata del 27, Di Vittorio rilascia a un’agenzia di stampa una dichiarazione del tutto personale nella quale non solo vengono ribadite le cose dette nel comunicato della segreteria, ma vi si aggiungono parole di piena e convinta solidarietà con i ribelli di Budapest: “In ordine al comunicato emesso oggi dalla segreteria della Cgil sui fatti di Ungheria che tanto hanno commosso i lavoratori e la pubblica opinione – commenta il leader della confederazione –, credo di poter aggiungere che gli avvenimenti hanno assunto un carattere di così tragica gravità che essi segnano una svolta di portata storica. A mio giudizio sbagliano coloro i quali sperano che dalla rivolta tuttora in corso, purtroppo, possa risultare il ripristino del regime capitalistico e semifeudale che ha dominato l’Ungheria per molti decenni”.

È un fatto, prosegue Di Vittorio, che tutti i proclami e le rivendicazioni dei ribelli conosciuti attraverso le comunicazioni ufficiali di radio Budapest, “sono di carattere sociale e rivendicano libertà e indipendenza. Da ciò si può desumere chiaramente che – ad eccezione di elementi provocatori e reazionari legati all’antico regime – non ci sono forze di popolo che richiedono il ritorno del capitalismo o del regime di terrore fascista di Horthy. Condivido quindi pienamente l’augurio espresso dalla segreteria della Cgil che anche in Ungheria il popolo possa trovare in una rinnovata concordia nazionale, la forza per andare avanti sulla strada del socialismo”.

La posizione del segretario della Cgil è nettamente in contrasto con le posizioni assunte dal Pci. Sulla “situazione del partito in relazione ai fatti di Ungheria”, il 30 ottobre si riunisce la direzione. Per Di Vittorio è di fatto un processo. Presenti Togliatti, Longo, Amendola, Li Causi, Scoccimarro, Sereni, Roveda, Pajetta, Dozza, Di Vittorio, Colombi, Berlinguer, Secchia, Roasio, M. Montagnana, R. Montagnana, Pellegrini, Terracini, Boldrini, D’Onofrio e Ingrao. Assenti Novella, Spano e Negarville. Partecipano alla discussione Pajetta, Di Vittorio, Roveda, Roasio, Secchia, Pellegrini, Amendola, Ingrao, Boldrini, Li Causi, M. Montagnana, Colombi, Sereni, Dozza, Terracini, Berlinguer, Pajetta, Longo, Di Vittorio.

Così, sulla presa di posizione di Di Vittorio, Emilio Sereni: “L’unità nella nostra direzione è di importanza fondamentale e questa unità non può avvenire che attorno al compagno Togliatti. Con la sua dichiarazione il compagno Di Vittorio si è contrapposto alla direzione”. Rincara la dose Dozza: “È noto in tutto il quadro confederale che Di Vittorio dà poca importanza al parere della direzione. Esigenza della disciplina. Sono per la lotta sui due fronti, ma deve essere lotta e ogni membro della direzione deve assumersi le sue responsabilità”. Duro anche Scoccimarro: “Gravissimo errore di Di Vittorio nell’aver ignorato l’esperienza storica”.


La presa di posizione degli intellettuali comunisti a favore di Di Vittorio

Più morbido nei confronti di Di Vittorio, ma comunque deciso, Roveda: “Sono d’accordo anche con l’articolo di Togliatti di stamattina (apparso su Rinascita, n. 10/1956, ndr) che pone il problema sul terreno di classe di fronte alla canea avversaria. Gli operai non avrebbero capito che l’esercito sovietico non fosse intervenuto per difendere il socialismo. Gli intellettuali dopo il XX Congresso vanno tutti alla ricerca del partito. Capisco la situazione molto difficile nella Cgil, ma si poteva evitare quella presa di posizione. I socialisti vogliono indebolire il nostro partito e dobbiamo evitare atti che li aiutino in questo. Non è vero che la posizione della classe operaia sia quella della Cgil”.

Assente Novella, conclude Palmiro Togliatti: “Dopo aver risposto alle argomentazioni sviluppate dai compagni – si legge sempre nel verbale – egli sottolinea che la posizione del comunicato della Cgil non è giusta. Ritiene che i comunisti della segreteria confederale avrebbero potuto e dovuto insistere per ottenere una posizione più giusta e che non disorientasse l’opinione dei lavoratori. In particolare osserva e deplora che il compagno Di Vittorio abbia aggiunto al comunicato un suo commento, non concordato con la segreteria del partito e divergente dalla linea del partito”. “La dichiarazione [di Di Vittorio] – aggiunge il segretario del Pci – non è stata concordata con noi e ha aumentato il disorientamento nel partito […] In questo momento come si può solidarizzare con chi spara contro di noi mentre si cerca di creare una grande ondata reazionaria? […] Si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia”.

Molti anni più tardi, nel volume “Di Vittorio e l’ombra di Stalin” (Ediesse 1997), Adriano Guerra e Bruno Trentin scrivono: “Alle critiche di Togliatti a Di Vittorio si associarono, con argomentazioni e toni non sempre collimanti, tutti i membri della direzione. Alcuni intervennero anche sul merito, come Roasio, Secchia (secondo il quale occorreva pero ‘abituarsi in certi momenti difficili ad avere anche posizioni diverse tra partito e Cgil soprattutto se si allargherà l’unita sindacale’), Colombi (‘La posizione di Di Vittorio non può essere approvata dalla Federazione sindacale mondiale di cui è presidente. Cattivo il suo metodo di fare tutto da sé. I socialisti cercano di dirigere la Cgil’)”.

Altri posero soprattutto “un problema di disciplina, come Ingrao (‘Il compagno Di Vittorio sapeva di dire cose diverse da quelle della direzione del partito. Bisogna condurre la battaglia uniti’), Pajetta (‘I dirigenti devono farsi l’autocritica’). Amendola, che pure fu molto duro con le posizioni di Di Vittorio e della Cgil (accusati di aver ceduto al ‘pogrom antisovietico’ e di aver dato una ‘giustificazione agli intellettuali malcontenti’), impostò però il suo intervento – in esplicita polemica con Secchia (‘che spinge soprattutto alla lotta contro il revisionismo’) e forzando un poco quel che aveva detto Togliatti sugli errori dei due opposti estremismi – sull’esigenza di una ‘lotta sui due fronti’, contro le due posizioni sbagliate di destra e di sinistra”.

Di Vittorio replica ai suoi interlocutori con due interventi molto contenuti e sempre dominati dalla volontà di non rendere ancora più grave il “caso”, ma che non possono davvero essere considerati di accettazione delle critiche. Non a caso Togliatti dirà a conclusione che “la risposta di Di Vittorio non è stata quella necessaria”. Il problema era insomma tutt’altro che chiuso.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

Antonio Pizzinato: una vita tra lavoro, passione e militanza

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Oggi (26 gennaio) a Roma, nell'ambito dell'Assemblea nazionale delle Camere del lavoro, la Cgil ha reso omaggio ad Antonio Pizzinato, iscritto alla confederazione dal 1947 e segretario generale dal 1986 al 1988. Susanna Camusso gli ha consegnato la settantesima tessera – la numero 1 del 2017 – insieme a  una targa ricordo. Nel corso dell'iniziativa, è stato proiettato il film "70 insieme", di Rachel Sereke ​

Operaio metalmeccanico ho scelto di esserlo. Ma le mie radici sono contadine – si racconta Antonio Pizzinato in un dattiloscritto non ancora edito donato qualche anno fa all’Archivio storico Cgil nazionale –, come lo erano quelle della maggior parte degli operai italiani nel secolo scorso. Sono nato nel Basso Friuli, a Fiaschetti, frazione di Caneva. Settanta e rotti anni fa, quando ci son venuto al mondo, avrà avuto sì e no duecento abitanti, tutti agricoltori. Questa della mia infanzia è terra buona, e bella: una distesa, ai piedi di una catena di montagne, che si estende per chilometri con terreni ben tenuti, coltivati alcuni a grano, altri a granturco. Alternati, filari di viti”.

Fiaschetti è lì: nel centro, un gruppo di casette a due piani e un’osteria, ai lati un crocevia di strade bianche che collegano altre decine di casolari sparsi nella campagna. “Incastonato nel cuore dell’arco montuoso, come se qualcuno ce lo avesse dipinto, spicca un grande quadrato verde scuro. È il Gaiardin, praticamente un fitto di pini. Scendendo con lo sguardo verso il piano si incontra Sarone, altra frazione di Caneva. Messa così, tra due colline, sembra un presepe. Sulla destra ha il Col di San Martin, verde di faggi e conifere, alla sinistra il Col de Fer, prati rossicci costellati di rocce e sassi neri. A qualche decina di metri più in là, andando verso Est, la strada bianca fa una curva e prosegue fiancheggiata da pioppi molto alti. La loro ombra accompagna il cammino fin sopra il ponte sulle acque fredde del Livenza, che ha una delle sue sorgenti poco più a Nord, al Gorgazzo, nel Comune di Polcenigo. Quasi a ridosso del fiume, sull’argine destro c’è una tipica casona di campagna, a forma di elle. Il cortile è ampio, vi si affacciano cinque abitazioni, più le stalle. Come recita anche la cartina geografica è il “curtivo dei Pizzinat”, il posto (o più precisamente: la corte) dove sono nato, l’8 ottobre 1932 e dove ho passato i primi quattordici anni della mia vita”.

Fra i paesi alle pendici di Pian del Cansiglio, Antonio vive la sua esperienza di ragazzino coinvolto dalla guerra e dalla Resistenza. Nel 1947 emigra a Milano, dove nell’aprile dello stesso anno viene assunto come apprendista alla Borletti di via Washington. Nello stesso anno si iscrive alla Fiom e nel 1948, subito dopo l’attentato a Togliatti, entra giovanissimo nel Pci. “Per la mia vita è uno spartiacque – racconta sempre Pizzinato –. È il momento della scelta. Ancora in preda allo sdegno e alla collera presento la mia domanda di iscrizione al Partito comunista italiano, anche se nessuno me lo aveva mai chiesto. La cosa, allora, non era tanto semplice. Bisognava compilare un’autobiografia – al Partito non si mente! – ed essere presentati da due iscritti che controfirmassero sia la domanda che l’autobiografia. I miei due garanti sono Giovan Battista Premoli e Rognoni. Quest’ultimo è stato negli anni dieci segretario della Federazione giovanile socialista milanese. Premoli è stato il segretario di quella comunista in clandestinità sotto il fascismo. La risposta tarda. Solo in autunno il comitato di fabbrica del partito discute la mia domanda. Vengo reputato troppo giovane. Mi invitano a iscrivermi al Fronte della gioventù, un’organizzazione giovanile di massa fondata durante la Resistenza da Eugenio Curiel ed egemonizzata dai giovani comunisti. Otterrò la tessera di comunista solo nel 1949, quando verrà fondata la Federazione giovanile comunista italiana (Fgci)”.

Nel 1954, concluso il servizio militare di leva, Pizzinato è eletto nella Commissione interna della stessa Borletti. Ma ben presto il suo impegno sindacale vede aumentare il raggio d’azione. Dopo quattro anni in Urss e una breve parentesi napoletana nel 1962 è nella Fiom provinciale di Milano (Ufficio studi, contrattazione e formazione), nel 1964 è eletto nel Comitato centrale della Fiom e dall’anno successivo diventa il responsabile della Fiom di Sesto San Giovanni, entrando a far parte della segreteria provinciale. Mantiene l’incarico fino al 1975, quando viene chiamato a dirigere l’Ufficio sindacale della neonata Flm e diventa segretario generale della Fiom provinciale.

A proposito del rientro dall’Unione Sovietica, Antonio racconta: “Autunno del 1961: è come se si riprendesse il lavoro ritornando in città dopo le ferie estive, ma l’intervallo è durato quasi quattro anni. Cerco di reinserirmi nella vita quotidiana. Non è semplice, perché la città – allora locomotiva del “miracolo economico”, come si diceva – in breve tempo era cambiata profondamente e rapidamente continuava a mutare. E il mio luogo di lavoro non è più la fabbrica: è un palazzotto in stile littorio, l’ex casa del fascio di Porta Garibaldi, divenuta al momento della Liberazione (e non a caso la piazza è stata intitolata al XXV aprile) sede della federazione provinciale del Pci. È lì che mi reco ogni mattina per lavorare. Una delle prime mattine, mentre salgo le scale a due a due per andare a colloquio con Cossutta, che nel 1958 ha sostituito Alberganti alla guida dei comunisti milanesi, mi vedo sbarrare la strada da Assunta, che nel frattempo è diventata la sua segretaria: bravo, te ne vai via per quattro anni e non mi fai sapere niente, non mi vieni neppure a salutare quando torni. Vuol far credere di scherzare, ma si vede che è arrabbiata davvero. È diventata un fior di ragazza e mi intimidisce. Farfuglio qualcosa sulla segretezza della mia trasferta e scappo dentro l’ufficio di Cossutta”.

Il giorno dopo Antonio si presenta da lei con un mazzo di fiori. “È un gesto che ripeterò spesso. Visto che Cossutta, uscendo dal colloquio, me l’ha indicata esortandomi a rivolgermi a lei per qualsiasi problema, ho infatti una buona scusa per passare almeno a salutarla ogni mattina. Assunta mostra chiaramente di gradire queste mie attenzioni, ben poco consuete, allora, nel mondo in cui vivevamo […]. Un bel giorno, all’inizio del 1962, prendo il coraggio a due mani e le chiedo di uscire con me solo. Mi dice di sì. Comincia cosi un rapporto molto intenso, quasi quotidiano […]. Un giorno devo partecipare a una riunione di partito a Sesto San Giovanni. Non solo non ho la macchina, ma non ho neppure la patente. Il viaggio coi mezzi pubblici – la metropolitana non esiste ancora – è lungo. Assunta, orgogliosa della sua patente appena conquistata, si offre di accompagnarmi con la macchina della federazione. L’emozione però la attanaglia. Al ritorno la vedo soffrire dietro un camion lentissimo, senza avere il coraggio di sorpassarlo, per tutto il lungo viale Sarca. Faccio finta di non accorgermene, per non metterla ancora di più in imbarazzo, ma soffro anch’io per lei. All’arrivo è in un bagno di sudore, tutta rossa: pochi giorni dopo ci ‘fidanziamo’. Al cinema, a teatro, ci andiamo da soli, noi due. Andiamo a un concerto di Toni Dallara, il primo degli ‘urlatori’. Canta Come prima, più di prima: sarà la ‘nostra’ canzone. L’estate successiva trascorriamo le ferie insieme, al mare, sulla Riviera romagnola” (1).

Nel 1977 Pizzinato entra a far parte del direttivo nazionale della Cgil e nel 1979 viene eletto segretario generale della Camera confederale del lavoro di Milano, quindi – a partire dal maggio del 1980 – è membro della segreteria regionale della Cgil Lombardia. Nel 1981 lascia la Camera del lavoro per dedicarsi a pieno tempo alla direzione della Cgil regionale. Tre anni più tardi, nel luglio del 1984, è eletto nella segreteria nazionale della Cgil (vi rimarrà fino al 1991). Nello stesso anno, diventa giornalista pubblicista. Ricorda ancora Pizzinato: “Dal 17 al 19 di aprile a Chianciano si tiene la conferenza nazionale della Cgil sulle politiche contrattuali e rivendicative dopo l’accordo separato e la manifestazione nazionale mentre è ancora in corso il dibattito parlamentare. Un confronto serrato, l’approvazione di una serie di documenti elaborati nelle commissioni, un tentativo di compiere un passo in avanti nel rilanciare le politiche della Confederazione. Il 6 maggio sera mi reco a Roma perché il mattino dopo ho un colloquio con Luciano Lama. È il seguito di altri colloqui avuti con lui e non solo con lui. Avevamo già discusso più volte sulla proposta di trasferirmi a Roma e operare in segreteria nazionale. Me ne aveva parlato Trentin, Reichlin assieme a Lama e anche Berlinguer. Mentre Galli insisteva perché andassi alla Fiom nazionale, anche nella prospettiva che terminato il mandato congressuale lui lasciasse la categoria. Al mattino mi alzo e mentre esco dal solito albergo in via del Viminale, dove un tempo c’era la sede della Fiom nazionale, Bellocchio mi informa che la sera prima Enrico Berlinguer, mentre teneva un comizio a Padova, è stato male, è all’ospedale in coma. Sono costernato, mi sembra impossibile che sia potuto accadere, anche in relazione all’ultima volta che gli avevo parlato, mentre partecipavo ad un incontro pubblico”.

In Cgil, si svolge l’incontro con Lama e Gianfranco Rastrelli, all’epoca responsabile dell’organizzazione: quest’ultimo entra nel merito dei motivi che hanno reso non più prorogabile il colloquio, “dopo che abbiamo ragionato sullo stato di Berlinguer alla luce anche delle informazioni che Luciano Lama aveva avuto direttamente dalla Direzione del Partito e da Padova. La proposta è di eleggermi in segreteria Cgil al primo Consiglio generale della Cgil e di trasferirmi immediatamente a Roma, poi Lama secco aggiunge ‘e adesso Antonio, non penserai mica, a fronte di quanto è accaduto a Berlinguer ed al suo stato di fare marcia indietro. Venire in Cgil è anche un obbligo morale che hai verso di lui’. Esaminiamo vari aspetti politici ed alcuni organizzativi, concordando di esaminare gli altri aspetti con Rastrelli. Angosciato per le condizioni di Berlinguer, ritorno a Milano”.

L’11 giugno, senza riprendersi, muore Berlinguer. “I funerali si svolgeranno a Roma, un’imponente manifestazione di affetto, di cordoglio. Il 17 giugno, alle seconde elezioni del Parlamento europeo, il Pci, per la prima volta, supera la Democrazia Cristiana, con un numero di voti che non ha precedenti. Il 26 giugno il Comitato centrale elegge Alessandro Natta segretario del Pci. Nei giorni successivi, il 20 luglio, si riunisce il Consiglio generale della Cgil, vengo eletto in segreteria nazionale e sono invitato a trasferirmi rapidamente a Roma perché durante il mese di agosto devo già fare il turno di 15 giorni di presidio della segreteria. Vado ad abitare in un micro appartamento in corso d’Italia 102, proprio all’altezza e di fronte al monumento che ricorda la Breccia di Porta Pia. Il 26 luglio si svolge la riunione del Consiglio regionale della Lombardia con Lama, lascio la responsabilità regionale. Paolo Lucchesi viene eletto segretario aggiunto, in mia sostituzione”.

Quando al congresso del marzo 1986 Luciano Lama lascia la Cgil, Antonio Pizzinato è eletto segretario generale (qui il documento con le sue conclusioni). Nel novembre del 1988 rimette il mandato: a succedergli è Bruno Trentin. Nel 1992 è eletto deputato, nel 1994 consigliere comunale a Sesto San Giovanni e nel 1996 senatore, ricoprendo l’incarico di sottosegretario al Lavoro nel primo governo Prodi. Nel 2007 è eletto presidente regionale dell’Anpi Lombardia, di cui è tuttora presidente onorario.

(1) Il 19 ottobre 1962, nel municipio di Sesto, Giuseppe Carrà, sindaco della città, unisce civilmente Antonio e Assunta in matrimonio. “La scelta del rito civile – racconta sempre Pizzinato – provoca forti contrasti coi miei cattolicissimi genitori. Per loro si tratta di un fatto talmente grave da indurli a decidere di non assistere alla cerimonia. Ma li sento ancora discutere animatamente e a lungo, la notte precedente le nozze: anch’io sono sveglio per il rammarico e la tensione che ha creato in me quella loro decisione. La mattina dopo, all’ultimo momento, mi comunicano che hanno cambiato opinione e che ci saranno. Ne sono doppiamente felice”.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

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