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Li Puma ucciso dalla mafia. «Ma Scelba lo sa?»

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Il 2 marzo 1948, a Petralia Soprana in provincia di Palermo, la mafia uccide Epifanio Li Puma, socialista, dirigente del movimento contadino per l’occupazione delle terre incolte. Li Puma è freddato da due colpi di fucile provenienti da due uomini a cavallo mentre lavora il suo pezzo di terra davanti al figlio.

Un omicidio efferato che va ad aggiungersi all’ampio corollario di morti nell’ambito del movimento operaio e contadino per mano della criminalità organizzata nel secondo dopoguerra siciliano.

Nel 69° anniversario della morte lo ricordiamo attraverso le parole che Girolamo Li Causi scriverà sulle colonne de «l’Unità» a pochi giorni dal suo assassinio il 17 marzo 1948, esattamente una settimana dopo il rapimento di Placido Rizzotto:

“Il 2 marzo a Petralia Soprana in provincia di Palermo, grosso comune al centro di una decina di borghi contadini, disseminati in una zona in cui impera sovrano il latifondo, mentre zappava il suo spezzone di terra, presente il figlio undicenne, veniva trucidato il vecchio compagno Epifanio Li Puma capo contadino che da 30 anni lottava contro i baroni, contro gli Sgadari, i Mocciari, i Pottino. Il delitto per ammissione stessa delle autorità, è politico: tutti sanno chi lo ha premeditato, organizzato ed eseguito. Anche la polizia lo sa. Li Puma veniva freddamente atterrato da due briganti della banda di Dino, banda che vive grazie alla complicità dei baroni che le assicurano ospitalità, sussistenza, protezione. Niente giustifica l’efferato delitto. Li Puma, padre di nove figli, contadino poverissimo aveva trascorso tutta la sua esistenza lavorando la terra, dirigendo la lega contadina di Petralia, organizzando la cooperativa “La Madre terra” che da tre anni è in lotta con i signori feudali per il possesso meno precario della terra, per più umane condizioni di esistenza. Dal Marchese proprietario, al campiere che indica ai banditi la vittima perché non sbaglino, ai sicari rotti ad ogni delitto la catena è limpida. Ma la polizia come già per altre decine di contadini capilega trucidati in questi ultimi mesi non vuole scoprire i mandanti e archivia le pratiche. Lo spaventoso è che le autorità hanno rinunziato persino ad andare in fondo e a scoprire chi sono stati gli assassini dell’avv. Campo, vicesegretario regionale della democrazia cristiana ucciso mentre in macchina si recava da Alcamo, in provincia di Trapani, ad Agrigento. Scelba ha mandato giù un suo ispettore centrale; ma questi dopo poche ore di permanenza a Palermo, ha fatto ritorno a Roma senza aver concluso nulla. La democrazia cristiana non ha interesse a scoprire gli assassini dell’avv. Campo, perché come si ammette dall’opinione pubblica siciliana, specialmente da quegli strati che più sono qualificati per esprimere opinioni e giudizi, su tali misfatti, dovrebbe scoprire i suoi legami con quelle organizzazioni criminose che vanno sotto il generico nome di mafia.

Non erano ancora trascorsi sette giorni dall’assassinio di Li Puma ed ecco che a Corleone, altro grosso borgo al centro anch’esso di una delle più caratteristiche zone del latifondo, in provincia di Palermo, sparisce il segretario di quella Camera del Lavoro e presidente di quella sezione reduci e combattenti, Placido Rizzotto, partigiano garibaldino. Fino a questo momento nulla si sa della sua sorte. Centinaia di contadini divisi in isquadre battono la campagna, esasperati, trepidanti, seguiti dall’ansia di tutto un popolo che non sa darsi pace della efferatezza del delitto. Ma si sa che l’ultima persona che il Rizzotto incontrò la sera del mercoledì 10 marzo, fu il gabellotto del feudo «Drago» proprietà del barone Alù e della baronessa Cammarata: feudo dal quale, dopo due anni di vana richiesta da parte della cooperativa «Bernardino Verro», solo nel dicembre scorso i contadini erano riusciti a strappare 50 ettari di terra.

Ebbene fino ad avanti ieri mattina Pacciardi, vice-presidente del consiglio per l’ordine pubblico, ignorava che in Sicilia era stato assassinato Li Puma ed era scomparso Rizzotto. E Scelba? Non sappiamo se anche lui lo ignorasse: però sappiamo che egli si sta dando un gran da fare per occultare le prove della complicità di agenti dello spionaggio americano con il banditismo siciliano. Precisamente egli intima ai suoi organi periferici di consegnargli le copie eventualmente esistenti della lettera del bandito Giuliano al giornalista americano Stern, nella quale il bandito chiede armi pesanti per la lotta contro il bolscevismo e da indicazioni pratiche per migliorare i suoi collegamenti con gli agenti americani.

A Palermo il governo regionale ricostituitosi con la presidenza dell’avvocato Alessi ma con la partecipazione dei gruppi di destra che lo avevano prima gettato nel fango per poi averlo più prono ai loro voleri, venerdì scorso si è rifiutato di rispondere ad una interrogazione urgente del Blocco del Popolo che gli chiedeva conto della fine del Rizzotto e delle gravissime condizioni della pubblica sicurezza in Sicilia. Ieri esso ha risposto, ma in modo tale che nessuno dubita più della complicità della democrazia cristiana con le forze della più bieca reazione isolana.

Forse è per questo che la direzione del Partito repubblicano in modo deciso e quella dei saragattiani in modo meno esplicito ma altrettanto significativo, hanno sconfessato rispettivamente il repubblicano e il pisello che per mascherare il carattere di destra del suo governo Alessi volle a tutti i costi imbarcare nella Giunta.

Pacciardi e Saragat avvertono che l’azione ferocemente antipopolare del governo Alessi e la complicità di questo governo con le forze del delitto, suscitano la unanime indignazione e vogliono separare le loro responsabilità.

Accenniamo solo di sfuggita per completare il quadro, ai legami che vanno stringendosi sempre più tra il banditismo, organizzazioni criminose genericamente intese col nome di mafia, dipendenti quasi tutte dal Blocco liberale e dalla democrazia cristiana, con le organizzazioni neo-fasciste che fanno capo all’Armata Italiana di Liberazione del generale Messe e che trovano aiuto nella formazione di gruppi clandestini di polizia ausiliaria presso il comando siciliano degli agenti di polizia. Ma Scelba lo sa?

La frontiera dell’Italia con l’America è la Sicilia. Questo fatto deve far riflettere molto tutti gli italiani affinché seguano con la massima attenzione lo sviluppo della situazione siciliana.

Già la Confederazione Generale Italiana del Lavoro, presente nei giorni scorsi nell’Isola con uno dei suoi segretari, il compagno Bitossi, ha in mano tutti gli elementi per svolgere un’azione nazionale in difesa della libertà sindacale e della vita degli organizzatori operai e contadini della Sicilia.

Sappiamo che il Fronte Nazionale democratico popolare è stato invitato dal Fronte regionale siciliano, ad intervenire affinché la grande provocazione già tentata in altre regioni dal governo De Gasperi e dall’imperialismo straniero, abbia a spuntarsi anche in Sicilia” («l’Unità», 17 Marzo 1948).

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale


L'eccidio del 1947 negli archivi della Cgil

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Il primo maggio 1947 Salvatore Giuliano e la sua banda sparano sulla folla accorsa a Portella della Ginestra per la festa dei lavoratori provocando la morte di undici contadini e il ferimento di decine di altre persone (le cifre oscillano tra trenta e sessanta). È la prima strage dell’Italia repubblicana, rimasta impunita. Nel settantesimo anniversario del massacro, abbiamo deciso di raccontare l’avvenimento attraverso un particolare e privilegiato punto di vista – il nostro – riproducendo integralmente i documenti conservati presso due archivi storici, quello della Cgil nazionale e quello della Flai intitolato a Donatella Turtura.

Ecco allora il verbale del Comitato direttivo confederale del 2 maggio 1947 convocato d’urgenza il giorno successivo alla strage; l’intervento di Cofferati (audio) il 1 maggio 1997 in occasione del 50° anniversario della strage stessa; le parole di Rinaldo Scheda nel 25° anniversario degli avvenimenti a pochi mesi dalla nascita della Federazione Cgil Cisl Uil; il discorso di Antonio Pizzinato in occasione del 40° anniversario dell’eccidio.

I documenti selezionati e integralmente riprodotti (qui le sintesi) dispiegano, attraverso linguaggi diversi, un percorso complementare tra storia, cultura, rappresentanza e rappresentazione. Lo rilanciamo con la consapevolezza – per utilizzare le parole di qualche anno fa del segretario generale Cgil Susanna Camusso – che l’incontro tra ricerca storica, memoria del sindacato e sensibilità delle istituzioni possa contribuire a rilanciare il dialogo tra le generazioni e dare forza ai principi fondamentali della Costituzione repubblicana.

A cura dell'Archivio storico della Cgil nazionale

Lama, il signor Cgil

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Il 31 maggio 1996 moriva a Roma Luciano Lama, per 16 anni (dal 1970 al 1986) alla guida della Cgil. Giovane partigiano, protagonista della stagione fondativa della democrazia italiana e, da sindacalista, ideatore del Patto federativo dopo l’accantonamento di ogni speranza di unità organica in seguito alla vittoria del centro-destra nelle elezioni politiche anticipate del maggio 1972, la sua segreteria è stata la più lunga nella storia ultracentenaria della confederazione di corso d’Italia.

Arrivato al vertice della Cgil poche settimane dopo la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, Lama vive con la massima fermezza possibile – dalla bomba di Piazza della Loggia a Brescia a quella alla stazione di Bologna, dall’omicidio di Moro a quello di Guido Rossa – la stagione dello stragismo prima e del brigatismo dopo.

Al centro della scena pubblica per più di 50 anni, sa come coniugare le forme più classiche della mobilitazione sindacale con i linguaggi della politica nella società di massa, attraverso una presenza efficace tanto nelle lotte operaie quanto nella comunicazione politica.

I documenti riprodotti a seguire ci restituiscono un Luciano Lama sotto certi aspetti inedito, raccontandoci di un uomo riservato e a volte schivo, dall’immensa personalità e carica umana: un uomo circondato da vero affetto, amato da compagni e lavoratori, stimato dagli avversari come controparte dura, ma leale.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

 

I DOCUMENTI:
Il laureato
25 dicembre 1960, Natale in Piazza Duomo
Ore 10,12. Carneficina in Piazza della Loggia

Lama o non l’ama?
Il caso Moro nelle carte della Cgil
La questione morale. Enrico Berlinguer nei ricordi di Luciano Lama
Ricordando Luciano Lama
Perché ci sono delle radici...
L’addio di Lama alla Cgil
Luciano Lama nei ricordi di Rinaldo Scheda
Luciano Lama sullo Statuto
Luciano Lama. Il sindacalista che parlava al Paese
Luciano Lama, parole e immagini vent’anni dopo
Inventario delle carte del Fondo archivistico Luciano Lama
Foto

Dieci anni senza Bruno

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Dieci anni fa moriva Bruno Trentin. Oggi (mercoledì 23 agosto) la Cgil lo ricorda a Roma in una commemorazione, che si svolge al Verano alle 9,30, nella quale interviene il segretario confederale Nino Baseotto

Vittima di una banale caduta in bicicletta, nell’agosto 2006 Bruno Trentin viene ricoverato in gravi condizioni all’ospedale di Bolzano. Morirà esattamente un anno dopo, il 23 agosto 2007, stroncato da una polmonite resistente alla terapia antibiotica. “Esprimo il dolore mio e di tutta la Cgil per la scomparsa di Trentin – dirà l’allora segretario generale della confederazione Guglielmo Epifani –. Bruno ha rappresentato in tutto il dopoguerra un punto di riferimento fondamentale nella lotta per la democrazia, l’uguaglianza sociale e per i diritti del mondo del lavoro. Si può dire che non c’è pagina nella storia della Cgil e del movimento sindacale italiano in cui non sia stato protagonista. Il Piano per il lavoro, la programmazione economica, la centralità del Mezzogiorno, le lotte operaie dell’autunno caldo, la stagione del sindacato dei diritti, gli accordi fondamentali del ’92 e del ’93 […]. Bruno lascia una lezione di grande rigore morale, coerenza e autonomia difese con intransigenza, di attenzione ai valori sociali e di difesa del valore della confederalità. A lui deve molto non solo la Cgil, ma l’insieme del movimento dei lavoratori, le forze politiche del Paese e le altre organizzazioni sindacali, verso le quali ebbe sempre una grande attenzione unitaria a partire dall’esperienza dei metalmeccanici”.

Dal verbale della Brigata Carlo Rosselli redatto a Milano nell’aprile 1945 alle dimissioni dalla carica di segretario generale della Cgil, alla Conferenza programmatica di Chianciano del giugno 1994; dalla corrispondenza con Giovanni Giolitti dopo la vicenda ungherese del 1956 all’autunno caldo e alla stagione del sindacato dei consigli; dall’8 settembre 1943 al Congresso di scioglimento del Pci nel 1991, i documenti che abbiamo selezionato e riprodotto più avanti ci restituiscono un Trentin sotto certi aspetti inedito, raccontandoci di un uomo riservato e a volte schivo, dall’immensa personalità e carica umana: “A molti poteva apparire, di primo acchito, come un aristocratico, un raffinato intellettuale, chiuso nella sua torre d’avorio – ha detto di lui Bruno Ugolini, giornalista, per lunghi anni cronista sindacale all’Unità –, ma era lo stesso uomo che nell’autunno caldo affrontava tempestose assemblee operaie e a volte rischiava di buscare i bulloni in testa”.

In una lettera dell’11 maggio 1945 indirizzata a Franca, la sorella di Bruno, Emilio Lussu definisce Trentin come “uno dei più audaci capi dell’insurrezione di Milano [...]. È stato semplicemente magnifico e ha rischiato mille volte: gli hanno sparato addosso in tante occasioni e si è sempre salvato. Egli ha in modo luminoso tenuto alto il nome dei Trentin”. E in un’altra del 6 giugno: “Capo delle squadre giovanili all’insurrezione di Milano, comandava oltre 2.000 uomini. Ora fa dei comizi nelle fabbriche con successi strepitosi! Se l’è cavata per miracolo. In una spedizione, sullo stesso camion sono morti 8 suoi giovani compagni presi di mira dai fascisti che vi lanciavano bombe. Si è salvato solo lui e lo chauffeur. Ha avuto anche altre avventure del genere. Insomma, è in vita. Ed è ben orgoglioso di portare il nome di Trentin”.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

I DOCUMENTI
La famiglia Trentin nell’esilio francese. Una mostra a Roma
L’8 settembre di Bruno Trentin
Il 25 aprile di Bruno Trentin
Il 1956 di Bruno Trentin
Ezio Tarantelli. Quell’economista impegnato a risolvere contraddizioni
Il Congresso che disse addio al Partito comunista
«Caro Giovanni, quel giorno verrà…»
14 giugno 1994 - L’addio di Trentin alla Cgil
Tanti auguri Fiom. Le parole di Trentin per il centenario
Bruno Trentin, sindacalista dalla teoria alla pratica

Nel 2008, a un anno dalla sua morte, Rassegna.it ha ricordato Bruno Trentin rendendo accessibili tutti gli articoli, le interviste, gli interventi pubblicati sulla rivista della Cgil. Un modo per contribuire all’intenso lavoro di ricostruzione del percorso politico e intellettuale di un dirigente straordinario, che ha contribuito in modo determinante a definire l’identità e il ruolo della Cgil e, in generale, del sindacalismo confederale. È solo una parte della produzione giornalistica e saggistica di Trentin, ma significativa per dare un’idea del rapporto che egli ebbe con Rassegna Sindacale, a partire dalla sua partecipazione, dal 1958, al comitato di redazione.
Trentin su Rassegna

Fiom, eletta la nuova segreteria nazionale

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Con 199 voti a favore, pari a oltre il 93% dei voti validi, 14 contrari e due astenuti, l'Assemblea nazionale della Fiom ha eletto oggi la nuova segreteria nazionale dell'organizzazione. I nuovi ingressi, Michele De Palma e Gianni Venturi, vanno ad affiancare Rosario Rappa, Michela Spera e Roberta Turi, in una segreteria che la leader Francesca Re David ha definito di continuità e rinnovamento.

Michele De Palma è nato a Terlizzi (in provincia di Bari) il 24 gennaio 1976. Negli anni novanta fa parte del movimento studentesco. Negli anni 2000 partecipa ai movimenti antiglobalizzazione e pacifisti, diventa coordinatore nazionale dei giovani del Prc. Dal 2008 è funzionario della Fiom di Reggio Emilia, fino al 2012 quando, come responsabile del settore automotive, si sposta alla Fiom nazionale.

Gianni Venturi, 61 anni, nasce a S. Angelo in Vado, in provincia di Pesaro Urbino. Perito elettronico, dal 1977 è collaudatore prima alla Farfisa, poi all'Ibm. Dal 1984 diventa funzionario del Pci nella federazione di Pesaro. Il rapporto con la Cgil inizia nel 1986, quando si occupa di ristrutturazione Snamprogetti/Eni per la Filtea e la Filcea. Dal 1989 al 1996 è segretario della Funzione pubblica di Pesaro. Nel 1996 entra nella segreteria confederale della Cgil, come addetto alle politiche pubbliche. Dal 2003 è segretario generale della Cgil Marche, incarico che ricopre fino al 2012, quando passa alla Fiom nazionale, dove coordina i settori della siderurgia prima e dell'elettrodomestico poi.

L'elezione dei due nuovi segretari della Fiom giunge al termine dell'Assemblea nazionale della categoria, che si è tenuta a Roma, presso l’Hotel Eurostars in via Casilina 125, il 23 e 24 ottobre, introdotta dalla relazione della segretaria generale Francesca Re David. Le assise sono servite anche per fare il punto e discutere della situazione politico-sindacale italiana.

Mobilitazione per cambiare la manovra

Lina Fibbi, una storia partigiana

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Figlia di un calzolaio toscano, Lina è ancora una bambina quando la sua famiglia lascia Fiesole ed emigra in Francia per sottrarsi alle persecuzioni e alle violenze fasciste. Era il 1923. Operaia tessile a Lione, a 15 anni decide di iscriversi alla Federazione giovanile comunista francese, poi, a 17 anni, sarà già dirigente dell’Unione delle ragazze francesi nella regione del Rodano. All’inizio della seconda guerra mondiale viene arrestata dalla polizia francese e internata nel campo di Rieucros.

Lo stesso campo ospita Baldina Di Vittorio, che ricorderà: “Rieucros fu per me un'esperienza importante perché lì conobbi decine di militanti di varie nazionalità. In particolare ricordo Teresa Noce (Estella), Giulietta (Lina) Fibbi, Elettra Pollastrini (Miriam), Anna Maria Montagnana (moglie di Mario), le sorelle Pauline e Mathilde, rispettivamente mogli di Andre Marty e di Gabriel Perì, a lungo prestigioso e amato direttore de 'l’Humanite', in quei mesi fucilato dai nazisti a Parigi. E tante compagne tedesche, cecoslovacche, spagnole, ecc. Per alcuni mesi fu internata con noi anche Anita Contini, la compagna di mio padre. Sulla mia sorte papà si rasserenò soltanto quando seppe che vicino a me c’era Estella, una compagna che avevo sempre conosciuto e che voleva bene a tutta la nostra famiglia. In effetti, Estella che pure era nota - oltre che per le sue qualità di combattente e di dirigente del movimento operaio - per il suo carattere difficile, fu molto buona e affettuosa soprattutto con le più giovani, e con me fu particolarmente materna”.

Nel 1941 Lina Fibbi chiede alle autorità francesi di essere rimpatriata. La richiesta viene accolta, ma appena arrivata a Ventimiglia, viene arrestata dalla polizia italiana. Saranno sei mesi di carcere a Firenze, poi, in assenza di prove a suo carico, il provvedimento di due anni d’ammonizione e la sorveglianza speciale.

Con la caduta del fascismo arriva la chiamata a operare nel servizio clandestino del Pci e poi la partecipazione al Comando generale delle brigate Garibaldi. Per anni segretaria della Fiot, la Federazione degli operai tessili della Cgil, diventa deputata del Pci nella quarta e nella quinta legislatura (1963-1972).

Giovanna Barcellona, Ada Gobetti, Lina Merlin, Rina Picolato e io. Eravamo in cinque, sono l'unica rimasta - racconta ancora Fibbi, nel novembre 2003 -. Tutti vogliono sapere il giorno della fondazione dei 'Gruppi di difesa della donna e per l’Assistenza ai Combattenti della Libertà', ma io non ricordo se fu proprio il 13 novembre del 1943, non ricordo se nella casa c’era una stufa rossa, ricordo che ci siamo trovate in un appartamento di Milano, ma allora si era costretti a cambiare le case così spesso che è difficile ricordare. Quello che ricordo con certezza è che non ci incontrammo quel giorno per fondare i Gruppi, non sono cose che nascono in un giorno (il 13, il 15?) per decidere la responsabile (Rina Picolato), il nome definitivo, un documento che contenesse lo scopo e gli obiettivi di questa organizzazione. Da quel momento il nostro compito fu quello di estendere l’organizzazione in tutta l’Italia. Bisognava andare in giro, aiutare le donne, verificare i loro compiti, ma soprattutto prendere contatti con le forze cattoliche, liberali e a poco a poco divenne organizzazione in cui erano rappresentate tutte le forze politiche, ma anche di tante donne che volevano fare qualcosa per cacciare i tedeschi e i fascisti. Secondo me i Gdd hanno rappresentato una delle colonne della Resistenza, infatti anche quelle che non vi erano direttamente organizzate, in qualche modo avevano nei Gruppi un referente. Prendiamo le donne della campagna, sono indubbiamente quelle che hanno dato di più: qualche giorno fa sono andata a Siena, ho incontrato una donna che avrà avuto oltre novant’anni; ebbene, durante la Resistenza aveva nascosto nel suo granaio molti soldati. Arrivarono i tedeschi, le chiesero se nascondeva qualcuno e lei negò. Perquisirono, ma non riuscirono a trovare nessuno. Quante donne come questa contadina hanno nascosto, sfamato soldati, renitenti, partigiani! Questa grande partecipazione ha cambiato le donne, non a caso dai Gdd sono nate l’Udi, il Cif e un impegno serio nelle organizzazioni sindacali”.

Qualche mese dopo, nel 1944, nella parte del Paese già liberata dal nazifascismo, su iniziativa del Pci viene costituita l’Udi, Unione delle donne italiane. Negli stessi giorni nell’Italia occupata i grandi scioperi operai danno una forte spallata al regime che crollerà definitivamente meno di un anno dopo. Ricorderà ancora Lina Fibbi: “L’8 marzo 1945 i tedeschi erano inferociti perché erano già in ritirata. […] era la Giornata internazionale della donna. Allora chiedemmo a Longo se avesse qualche idea e lui disse: “mandiamo le donne sulle tombe dei partigiani caduti e facciamo in modo che si possano riconoscere”. Inventammo così il simbolo dell’8 marzo: la mimosa. E fu Longo a inventare la mimosa!1 La scelse perché è un fiore che si trova facilmente […]. E quel giorno, quell’8 marzo 1945, al Cimitero monumentale di Milano c’erano moltissime donne, tutte con la mimosa, e i tedeschi erano impazziti perché non potevano dire niente […] fu un episodio formidabile” (Guido Gerosa, Le compagne, Rizzoli 1979, p. 111).

1Un’altra versione dei fatti sostiene invece che fu Teresa Mattei, che sarà tra le costituenti elette nelle file del Pci nel 1946, a convincere Longo dell’uso della mimosa, mentre il leader comunista avrebbe preferito le violette, già in uso nella Francia del Fronte popolare.

Ilaria Romeo è responsabile dell'Archivio storico Cgil nazionale

Da Chianciano a Roma: quattro Conferenze lunghe (quasi) 30 anni

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Il 12 aprile 1989 si apre a Chianciano la prima Conferenza di programma della Cgil. Bruno Trentin, eletto segretario generale della confederazione da pochi mesi, rompe gli indugi e illustra il suo progetto, avanzando l’ipotesi di una nuova Cgil, sindacato dei diritti, della solidarietà e del programma. Due sono i punti sui quali il segretario insiste maggiormente: il sindacato deve partire nella sua azione non più dalla classe, ma dalla persona che lavora; il sindacato deve farsi portatore dei diritti universali e divenire, con un proprio progetto, uno dei protagonisti principali della società civile organizzata.

Affrontando già nella relazione introduttiva quelli che ritiene essere i nodi irrisolti della politica sindacale (il rapporto tra sviluppo e natura e ambiente, la politica dei redditi e il debito pubblico, la democratizzazione dell’economia e delle imprese), Trentin afferma in apertura dei lavori: “Siamo consapevoli del momento particolare in cui si tiene questa Conferenza – dice –, della sua coincidenza con una fase di grande impegno di tutta la Cgil e del movimento sindacale per contrastare con efficacia il tentativo di rivalsa del governo nei confronti dei primi risultati della nostra lotta per la riforma fiscale e per rovesciare la logica punitiva e classista che ispira le prime misure adottate nei confronti dell’assistenza sanitaria per la parte più indifesa della popolazione”.

Preoccupa in particolare Trentin la dimensione dello scontro che si profila su questioni fondamentali, a cominciare dal ruolo della contrattazione, la riforma della pubblica amministrazione e quella dello Stato sociale. “La ricerca delle forme più efficaci di mobilitazione e di tenuta della pressione dei lavoratori intorno a piattaforme riformatrici – continua – non può che determinare, in una situazione come questa, un dibattito e anche la contrapposizione feconda di soluzioni alternative, fra la Cgil e le altre confederazioni e all'interno della stessa Cgil. È naturale e necessario che ciò avvenga. I prossimi giorni e le prossime settimane ci vedranno quindi coinvolti senza riserva in un grande sforzo di elaborazione, di confronto politico, ma anche di mobilitazione e di iniziative sindacali, alle quali dovremo dedicare tutte le nostre energie”.

Proprio questa consapevolezza e la collegialità di questo impegno, “al di là delle opinioni diverse che possono esserci sulle tattiche più efficaci da adottare”, inducono il leader di corso d’Italia a proporre “a questa Conferenza di mantenere rigorosamente l’obiettivo che da tempo la Cgil si è proposto: avviare una fase nuova di elaborazione e di definizione del Programma fondamentale della Cgil, senza rinviare a tempi migliori una ricerca collettiva che ha già subito troppi ritardi; e trarre un primo bilancio delle molte iniziative che sono state sperimentate, da due anni a questa parte, su alcuni grandi temi di strategia sindacale. Non possiamo permetterci il lusso di lasciare passare questo appuntamento” (LEGGI TUTTO).

La Conferenza di Chianciano avvia un processo di autoriforma che, di fatto, proseguirà con la Conferenza di organizzazione di Firenze del novembre 1989 e con il Congresso di Rimini del 1991, per concludersi nel giugno 1994 con la seconda Conferenza programmatica della confederazione. Sul piano organizzativo, la novità più rilevante è lo scioglimento delle componenti storiche collegate ai partiti di riferimento della sinistra italiana. In questo modo, la dinamica tra maggioranza e opposizione si sarebbe sviluppata all’interno del sindacato non tanto sulla base della vicinanza a un partito o a una coalizione di governo, quanto in virtù della condivisione o meno di un programma di governo dell’organizzazione.

Sul piano rivendicativo, la Cgil accetta di contribuire alla riforma della contrattazione collettiva e di discutere con gli interlocutori pubblici e privati l’introduzione della politica dei redditi attraverso il sistema della concertazione, individuata come il principale strumento per riportare sotto controllo l’esplosione del debito nazionale; entrambi questi temi saranno introdotti con lo storico accordo siglato nel luglio 1993 con il governo Ciampi, evento rivelatosi presto decisivo per il risanamento dei conti pubblici e per l’ingresso dell’Italia nell’Unione europea.

La seconda Conferenza programmatica della Cgil si tiene, sempre a Chianciano, dal 2 al 4 giugno 1994. Trentin lascia la guida della confederazione, “quella Cgil che conosco bene – afferma – e di cui lascio la direzione con un sentimento di infinita riconoscenza […]; un sindacato di donne e di uomini che si interroga sempre sulle proprie scelte e anche sui propri errori, che cerca di apprendere dagli altri per trovare tutte le energie che gli consentano di decidere, di agire, ma anche di continuare a rinnovarsi, di dimostrare con i fatti la sua capacità di cambiare e di aprirsi a tutte le esperienze vitali e a tutti i fenomeni di democrazia che covano ora e che covano sempre nel mondo dei lavoratori” (LEGGI TUTTO).

Il Comitato direttivo del 29 giugno ratifica la decisione annunciata, eleggendo Sergio Cofferati nuovo segretario della confederazione. Sarà però sotto la guida di Guglielmo Epifani che nel luglio 2009 si terrà, ancora una volta a Chianciano, la terza Conferenza di programma della Cgil: “Sono trascorsi vent’anni dalla Conferenza di programma di Chianciano – ricorda il segretario generale in apertura dei lavori –. In quella circostanza la Cgil si interrogava sull’avvio della fase neoliberista e sui primi passi della globalizzazione, nonché sui limiti di sostenibilità del modello di sviluppo che andavano emergendo sempre più chiaramente. Erano gli anni segnati dalla fine della fase economica e sociale caratterizzata da un’organizzazione del lavoro di stampo fordista-taylorista; e dall’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Lì decidemmo quella svolta che ci portò all’idea del ‘sindacato dei diritti’, una Cgil che puntava alla libertà ‘nel lavoro’ e non ‘dal lavoro’ e capace di misurarsi in modo innovativo con le profonde trasformazioni del mondo del lavoro, senza rinchiudersi in una riserva indiana”.

“Bruno Trentin – prosegue Epifani – indicava come base fondamentale di quel programma generale che trova origine nelle idee di Di Vittorio l’assunzione di una nuova tensione progettuale del sindacato, volta a ricollegare occupazione e qualità della prestazione, a saldare occupazione, potere e governo delle conoscenze. […] La svolta ‘culturale’ operata dalla Cgil consisteva nel mettere al centro la persona, come titolare di diritti e di doveri, nel configurare così una nuova idea di cittadinanza, intesa come un processo aperto e universalistico di inclusione sociale e di piena valorizzazione dell’autonomia di scelta, nel lavoro e nella società, del proprio progetto di vita. Ciò significava per il sindacato allargare il proprio campo di azione, per investire tutti i diversi aspetti della condizione sociale, vedendo quindi il lavoro non in modo isolato, ma in tutti i suoi intrecci con l’organizzazione della società”.

La cittadinanza, dunque, come terreno di una nuova strategia sindacale: “Eguaglianza dei diritti, autonomia della persona, costruzione di una rete concreta di solidarietà, pieno riconoscimento del pluralismo e delle diversità – scandisce Epifani –. Eguaglianza come eguale diritto a un’autonoma progettazione della propria identità personale. È la scelta che ci ha accompagnato negli anni novanta, mentre cambiava impetuosamente il Paese, stretto tra la fine della prima Repubblica e le drammaticità della condizione economica e finanziaria, e che ci ha portato anno dopo anno, trasformazione dopo trasformazione, ai giorni nostri, in una società dove la modernità ha significato contrapporre i consumatori ai produttori, i giovani agli anziani, l’individuo agli interessi generali. In un quadro dove l’economia globale trasformava il suo volto e l’equilibrio capitale-lavoro si alterava spesso a favore della rendita, generando così quelle disuguaglianze all’origine della crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando” (LEGGI TUTTO).

Proprio il lavoro è al centro dell’intervento di apertura di Susanna Camusso alla quarta e a oggi ultima Conferenza di programma della confederazione, che si tiene a Roma il 25 e 26 gennaio 2013, appuntamento nel quale il sindacato, neanche a dirlo, presenta il nuovo piano per l’impiego: “Parlare del lavoro è parlare delle persone, del loro essere – affermava ormai quattro anni fa il segretario generale della Cgil –. Per noi lavoratrici e lavoratori, pensionati e sindacalisti, militanti e iscritti al sindacato, alla Cgil, parlare di lavoro è parlare del pane. Il lavoro è stato per noi e deve restare l’ingresso nella vita adulta, nella vita autonoma, nel piacere del realizzare i propri progetti e i propri sogni. Per questo il lavoro non può essere povero, figlio del massimo ribasso, incerto. Non può essere precario. Il lavoro è condizione concreta di orario, professionalità, salario, è diritti e doveri. È dignità. Il lavoro non può essere nero, sommerso, schiavizzato, mercificato. Il lavoro è sapere e conoscenza, qualità e investimento. Per questo la precarietà va combattuta, in quanto nega saperi, certezze, valore. Il lavoro può essere anche la frustrazione, la preoccupazione e l’angoscia di perderlo; la rabbia di non trovarlo. Può trasformarsi da libertà a prigionia se invece del collocamento si incontra un caporale. Il lavoro può trasformarsi da diritti e doveri a imposizione autoritaria quando viene negata la contrattazione, la libertà e la democrazia sindacale. Il lavoro è la trasformazione, non solo della materia, ma della società, del collettivo, delle relazioni. Il lavoro è conflitto positivo, necessario perché presuppone interrelazione; modifica e trasforma, fa progredire. Il lavoro è l’unica vera condizione per creare ricchezza, in ogni Paese e nel mondo. Il lavoro è sapere di avere un proprio ruolo”.

Per tutti questi motivi, e per converso, l’assenza di lavoro produce “un vuoto, corrode, cancella la dignità”. “L’assenza di lavoro, la disoccupazione, la rinuncia a cercare lavoro perché non c’è – continuava Susanna Camusso –, condannano un Paese al degrado e al declino. Siamo qui, quindi, per parlare di lavoro, perché pensiamo che il lavoro è la condizione per uscire dalla crisi. Per essere più precisi, creare e difendere lavoro è l’unica premessa credibile di una proposta per uscire dalla crisi. Dobbiamo partire dal lavoro per affrontare il tema delle nuove e grandi diseguaglianze, che sono l’altra faccia della crisi. E da lì dobbiamo partire per ricostruire l’unità di un mondo del lavoro diviso e frantumato, un’unità come antidoto della molteplicità degli egoismi sociali che caratterizzano quest’epoca liberista, frammentata e priva di futuro” (LEGGI TUTTO).

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

Giuseppe Di Vittorio, continua la caccia all'inedito

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Se avete una lettera, una foto, un autografo o un documento firmato da Giuseppe Di Vittorio, è il momento di tirarlo fuori dal cassetto. In occasione del 60° anniversario della scomparsa del suo primo segretario generale, infatti, la Cgil nazionale ha bandito un concorso finalizzato al ritrovamento e all’acquisizione (in originale o in copia digitale) di video, foto, lettere o documenti a firma Giuseppe Di Vittorio, non conservati presso gli archivi della Confederazione (requisiti e modalità di partecipazione si possono leggere nel bando di concorso).

“Ogni giorno giungeva a Di Vittorio una quantità immensa di lettere, da ogni parte d’Italia - ricorda Anita Contini Di Vittorio nelle proprie memorie - Una mole immensa, di fronte alla quale confesso di essermi sentita, talvolta, spaventata. Si rivolgevano a lui per i motivi più vari […] Mancavano i mezzi per far studiare un figlio? Si scriveva a Di Vittorio con fiducia […] Un paralitico chiedeva una carrozzella per poter uscire qualche volta di casa. Dei genitori chiedevano a lui un aiuto «per sposare i figli» che non possedevano nulla. Una famiglia minacciata di sfratto si rivolgeva a lui e così l’infortunato sul lavoro o il mutilato di guerra. Accadde più di una volta che si rivolgessero a lui marito e moglie, perché egli dicesse la parola che poteva rimetterli d’accordo, e salvare l’unita della famiglia. Di Vittorio pretendeva che si rispondesse con grande attenzione a tutti. Guai se una sola lettera rimaneva inevasa!” [1].

A Di Vittorio scrivono in effetti (e l’Archivio storico Cgil nazionale gelosamente ne conserva gli originali) invalidi e pensionati di guerra, artigiani, invalidi civili, orfani, vedove, lavoratori senza pensione, pensionati, perseguitati politici, operai, emigrati, maestri (anche di scherma), carabinieri, persino preti. Cittadini di ceto e condizione sociale molto diversi che confidano al segretario, ma anche e forse soprattutto all’uomo Di Vittorio esigenze, inquietudini, progetti.

Le lettere permettono di raccontare mille storie diverse: quelle dei ragazzi (10-14 anni) del Villaggio Sandro Cagnola (La Rasa, Varese), istituito con lo scopo di “assicurare l’avvenire ai figli dei compagni caduti” (il villaggio ospita, tra l’altro, i figli dei non sopravvissuti all’eccidio di Portella della Ginestra); quelle dei tantissimi perseguitati politici; quelle delle donne. Donne che, condividendo una sorte purtroppo comune,  raccontano di aver contratto debiti per sopravvivere, di avere arretrati nel pagamento dell’affitto di casa, nei negozi di alimentari. Questa coralità non impedisce che nelle lettere emergano o anche semplicemente trapelino accenti quasi confidenziali, o particolari personali: c’è chi narra di essersi divisa dal marito “per contrari e opposti sentimenti politici” o chi espone la sventura di essere “vittima di gelose piccinerie che si accaniscono sulla parte debole della società, utilizzando stereotipi volgari”, offrendo la comunicazione confidenziale anche aspetti gioiosi quali la nascita di un figlio, le nozze della figlia.

A Di Vittorio scrive anche il prete (effettivamente alla segreteria hanno scritto anche delle suore, chiedendo la tessera Cgil), il dottore, colui che vuole emigrare, il lavoratore che si sente danneggiato dallo sciopero dei servizi pubblici… Al “compagno onorevole” viene anche spedito di tutto: marce trionfali per pianoforte, progetti di apparecchi agricoli o invenzioni varie, foto di famiglia… E Di Vittorio, da buon padre di famiglia, ascolta, comprende, guida, indirizza, consiglia, quando può interviene, ma soprattutto risponde, a tutti.

Dal 1944 al 1957 (anno della sua morte), le lettere conservate in archivio consentono una narrazione diversa degli avvenimenti storici dell’Italia degli anni Cinquanta, raccontando in una forma squisitamente umana e personale delle rappresaglie, degli eccidi, della disoccupazione, in generale del clima politico, economico e sociale di un’Italia uscita da una guerra devastante in senso materiale e ancor più morale, che però combatte e lotta, senza arrendersi. Per rendere più facile la ricerca dell’inedito che stiamo cercando abbiamo compilato un elenco dei mittenti delle lettere indirizzate a Di Vittorio e conservate in via dei Frentani.

Sei tra i mittenti? Ne conosci qualcuno? La caccia all’inedito continua. Per consultare l'elenco clicca qui

[1] Anita Di Vittorio, La mia vita con Di Vittorio, Vallecchi, Firenze 1965, pp. 142-143.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico della Cgil Nazionale


Cgil: antifascisti oggi, ieri, per sempre

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Oggi, sabato 24 febbraio, la Cgil parteciperà a Roma, insieme ad altre 22 organizzazioni, alla manifestazione nazionale “Mai più fascismi, mai più razzismi”. “Diamo vita insieme a Roma, capitale della Repubblica nata dall’antifascismo e dalla Resistenza, a una manifestazione che dev’essere davvero grande, popolare, pacifica, partecipata, patrimonio di quanti hanno a cuore l’inalienabile valore della libertà – recita la prima parte della nota diffusa dal Comitato Mai più fascismi –. Lo chiediamo a tutte le persone, ai lavoratori e alle lavoratrici, ai giovani, alle ragazze, agli anziani, alle famiglie, alle comunità, indipendentemente dalle opinioni politiche, dal credo religioso e dai luoghi di provenienza (leggi qui la versione integrale della nota)”.

Non è certamente la prima volta che la Cgil è in prima linea nella difesa dei valori antifascisti. “Perché abbiamo combattuto contro i fascisti e i tedeschi – diceva nell’aprile 1978 Luciano Lama –? Perché abbiamo rischiato la vita, perduto, nelle montagne e nei crocevia delle nostre campagne, nelle piazze delle nostre città migliaia dei nostri compagni e fratelli, i migliori? Perché siamo insorti, con le armi, quando il nemico era più forte di noi? Noi abbiamo lottato allora per la giustizia e per la democrazia, per cambiare l’Italia, per renderla libera. […]

Per l’allora segretario generale della confederazione di corso d’Italia, l’obiettivo era “sconfiggere nella coscienza dei lavoratori e del popolo ogni tentazione al disimpegno, da qualunque parte essa venga. […] Oggi, in un momento drammatico della nostra storia, guardiamo con grande preoccupazione al presente e ricordiamo con giusta fierezza, anche se senza trionfalismo, la lotta di trent’anni fa. […] I giovani devono crescere con questi valori, e sapere che la nostra generazione, pur con tutti i suoi limiti ed errori, ha creduto in qualche cosa e continua a crederci ed è capace di sacrificarsi e continua a sacrificarsi per questi valori” (LEGGI TUTTO).

Il 25 aprile del 1946, in occasione del primo anniversario della Liberazione, era Giuseppe Di Vittorio ad affermare: “Il popolo italiano ha celebrato il primo anniversario della conclusione vittoriosa dell’insurrezione nazionale, che costituisce una delle pagine più significative e gloriose della storia d’Italia. L’aspetto più saliente e nuovo della vittoria italiana del 25 aprile non è tanto nel fatto in sé della liberazione del nostro Paese dal feroce invasore tedesco e dai suoi tristi complici italiani, quanto nel fatto che questa memorabile vittoria è stata conseguita dagli stessi italiani, dalle masse profonde del nostro popolo”.

È soprattutto qui il motivo che fa del 25 aprile 1945 una data completamente differente da tutte le altre: perché la Liberazione, sempre a giudizio del leader sindacale, ha chiuso definitivamente una fase della storia d’Italia e ne ha aperta una nuova, della quale le masse popolari italiane sono l’autentico protagonista. “L’insurrezione vittoriosa di tutto il popolo dell’Italia del Nord – proseguiva Di Vittorio – realizzò la premessa essenziale della rinascita e del rinnovamento democratico e progressivo dell’Italia, come della sua piena indipendenza nazionale. È per noi motivo di grande soddisfazione ricordare che a questo movimento di riscossa nazionale, il contributo più forte e decisivo fu portato dai lavoratori italiani”.

Sì, perché furono gli operai, i contadini, gli impiegati e i tecnici a costituire “la massa e il cervello delle gloriose formazioni partigiane e di tutti i focolai di resistenza attiva all’invasore tedesco”. “Chi può dire – si chiedeva il segretario generale della Cgil – se la clamorosa vittoria del 25 aprile sarebbe stata possibile, senza gli scioperi generali grandiosi che, dal marzo 1943, si susseguirono, a breve distanza, sino al 1945? Quegli scioperi, che contribuirono fortemente a paralizzare l’efficienza bellica del nemico e a sviluppare la resistenza armata, costituiscono un esempio unico e glorioso di lotta decisa dalla classe operaia sotto il terrore fascista, sotto l’occupazione nazista e in piena guerra”.

Un esempio “che additava il proletariato italiano all’ammirazione del mondo civile! I lavoratori italiani, manuali e intellettuali, non dimenticano. Essi hanno piena coscienza di essere stati il fattore determinante della liberazione dell’Italia, per opera degli italiani; della salvezza. Dell’onore dell’Italia e dell’attrezzatura industriale del Nord. Essi sono consapevoli dell’obbligo che si sono assunti di essere un pilastro basilare della nuova Italia democratica. Solidamente uniti nella grande Confederazione generale italiana del lavoro, i lavoratori italiani saranno all’altezza della loro funzione di forza coesiva dell’Italia rinnovata; della forza che assicurerà stabilità e ordinato progresso al nuovo regime democratico e che assicurerà al popolo italiano la libertà, il benessere e una più alta dignità civile e umana” (1). Perché la Cgil antifascista lo è oggi, lo sarà domani, lo è stata da sempre.

(1) Da “Il Lavoro”, 27 aprile 1946

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

 

I DOCUMENTI

Delitto Matteotti, l’inizio del regime

Bruno Buozzi: uno dei protagonisti dell’unità sindacale

25 aprile: il grande risveglio dell’Italia

Il 25 aprile di Bruno Trentin

Genova, 25 aprile: la città è stata liberata

L’8 settembre di Bruno Trentin

L’«Alba» dell’8 settembre

I primi giorni della Resistenza a Genova

«Lavoro» e Resistenza

La Resistenza in convento

Fausto Vigevani, passione e impegno per la Cgil

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È morto uno di noi. È morto un uomo, un grande sindacalista e un raffinato politico che tanti in Cgil hanno conosciuto e apprezzato. È morto prematuramente, strappato alla vita e ai suoi affetti quando ancora poteva offrirci tanti suggerimenti, tante idee per noi, compagni della sinistra, per la sua Cgil alla quale ha dedicato passione e impegno nella sua lunga carriera”. Sono le parole con cui Raffaele Minelli, all’epoca presidente del comitato direttivo della Cgil, ricordò Fausto Vigevani nel giorno dei suoi funerali, il 7 marzo del 2003.

Di Fausto Vigevani ricorre oggi, 5 febbraio, il 15° anniversario della morte. Uomo dal carattere burbero e a tratti persino ruvido, come lo definì l’allora segretario generale della Cgil Sergio Cofferati, Vigevani sapeva essere capace allo stesso tempo di grandi passioni e di profondi legami affettivi. “I legami – disse Cofferati in occasione delle esequie – erano nascosti, protetti, mai esibiti. E la passione invece evidente, rigorosa e ininterrotta. Una passione che ha segnato tutta la sua storia sindacale e poi quella politica, con tratti che sono esemplari per molti di noi (LEGGI TUTTO)”.

Nato a Coli, in provincia di Piacenza, il 30 luglio del 1939, Vigevani inizia a lavorare in Cgil a Piacenza, nella locale Camera del lavoro nei primi anni sessanta. Nel 1969 si trasferisce a Novara, della cui Camera del lavoro diviene segretario generale. Nel 1973 viene chiamato a Roma, nella segreteria nazionale dei chimici (Filcea), di cui diventa segretario generale nel 1977, al congresso di Cervia. Nel 1981 entra a far parte della segreteria confederale della Cgil, dove rimane per 10 anni, fino al 1991 quando, l’11 ottobre al congresso di Chianciano, viene eletto segretario generale della Fiom, incarico che manterrà fino al 1994. Nel marzo 1994 è eletto senatore nel collegio di Parma nelle fila del Partito democratico della sinistra. Confermato nelle elezioni del 1996, è sottosegretario alle Finanze nel governo Prodi e nel primo governo D’Alema. Muore a Roma il 5 marzo 2003.

Molti ricordano di Fausto Vigevani l’appassionato intervento alla Conferenza di organizzazione della Cgil tenutasi a Firenze dal 14 al 16 novembre 1989. Un intervento non particolarmente lungo, ma molto efficace che riassume la sua concezione del sindacato, chiamato a operare come soggetto autonomo in una fase storica piena di nuove potenzialità dopo la caduta del muro di Berlino. La stessa concezione di una “Cgil unita perché autonoma, autonoma perché unita, unita e autonoma perché profondamente democratica”, che farà dire a Bruno Trentin – a Genova nel settembre 2004 – che “il sindacato come soggetto politico, unitario e autonomo era capace proprio per questo di essere un interlocutore scomodo, ma necessario di un’alternativa di sinistra nel governo del Paese”.

A un anno dalla sua morte, nel 2004, Pasquale Cascella, Giorgio Lauzi e Sergio Negri daranno alle stampe per la casa editrice Ediesse il volume Fausto Vigevani: la passione, il coraggio di un socialista scomodo. Dalle pagine del volume emerge, per merito di autori attenti e sensibili, come la figura di Fausto Vigevani sia strettamente legata alle trasformazioni politiche e sociali del nostro Paese, un discorrere di avvenimenti, scelte, scontri politici nei quali il ruolo di Vigevani è sempre stato significativo, dalle sue prime esperienze sindacali a Piacenza fino alle successive vicende politiche riguardanti la crisi del Psi e la trasformazione della sinistra italiana.

A 10 anni dal primo volume a lui dedicato e a 11 dalla sua scomparsa, nel maggio 2014 di nuovo la casa editrice Ediesse pubblica nella collana Storia e memoria il libro Fausto Vigevani. Il sindacato, la politica (a cura di Edmondo Montali e Sergio Negri). Oltre a una serie di articoli e interventi (alcuni inediti) di Vigevani, il libro contiene, tra gli altri, contributi e interviste a Valentina Vigevani, Susanna Camusso (sarà proprio Fausto Vigevani nel 1993 a chiamarla a Roma nella segreteria nazionale della Fiom come responsabile del settore auto prima e in seguito della siderurgia), Carlo Ghezzi, Paolo Leon, Mauro Beschi, Sergio Cofferati, Cesare Damiano, Gaetano Sateriale, Pierre Carniti, Bruno Trentin, Fausto Sabbatucci, Massimo L. Salvadori.

È importante ricordarlo – dirà Carlo Ghezzi, all’epoca presidente della Fondazione Di Vittorio, nel convegno a lui dedicato a 10 anni dalla scomparsa, del quale il volume ripropone gli atti –, analizzare la sua figura e la sua opera per riproporle a coloro che lo hanno conosciuto e stimato così come a coloro, sopratutto ai più giovani, che hanno solo sentito parlare di lui e che desiderano approfondire tanti aspetti del robusto contributo che Fausto ha portato nel sindacalismo confederale e nello schieramento progressista italiano… Avvertiamo quanto ci manca… una progettualità solida e coerente con il sistema valoriale nel quale siamo insieme cresciuti… quanto ci manca il contributo di un dirigente, la sua acuta capacità di analisi coniugata con la sua ricerca costante e concreta… di proposte tendenti a fare procedere il progresso e la giustizia sociale”.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

Il caso Moro nelle carte della Cgil

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Il 16 marzo 1978 (giorno della presentazione del nuovo governo, il quarto guidato da Giulio Andreotti) la Fiat 130 che trasporta Aldo Moro dalla sua abitazione alla Camera dei deputati viene intercettata tra via Fani e via Stresa da un commando delle Brigate Rosse. I cinque uomini della scorta (Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi) vengono uccisi sul colpo, Moro è sequestrato.

Dopo una prigionia di 55 giorni il corpo dello statista viene ritrovato il 9 maggio a Roma in via Caetani, emblematicamente vicina sia a Piazza del Gesù che a via delle Botteghe Oscure, a due passi dalle sedi storiche – rispettivamente – della Dc e del Pci. La Cgil vive con commossa partecipazione l’intera vicenda, proclamando lo stesso 16 marzo – insieme a Cisl e Uil – lo sciopero generale.

Grandi manifestazioni hanno luogo a Bologna, Milano, Napoli, Firenze, Perugia e Roma, dove 200.000 persone si raccolgono in piazza San Giovanni. Così Luciano Lama dal palco: “Io credo, compagne e compagni, che nelle grandi prove, nei momenti decisivi come questo si misurano in effetti le qualità vere, migliori di una classe, di una popolazione, di una nazione”.

“Sul mondo del lavoro unito – prosegue il segretario generale della Cgil – incombe un compito importante nella difesa dei valori essenziali della libertà, della democrazia, della civiltà nostra; […] dobbiamo sentire che l’intesa, l’unità fra di noi è una delle garanzie vere, delle possibilità della democrazia, della libertà di trovare nel nostro popolo la sua difesa essenziale. Dimostriamo in questo momento difficile, in questo momento tragico della vita del paese di essere all’altezza di questo grave compito”.

Il 18 aprile, XXX anniversario della vittoria democristiana nelle elezioni del 1948, trentaquattresimo giorno del rapimento Moro arriva quello che poi sarà definito il falso comunicato numero 7 delle Brigate Rosse, il cui contenuto dà per avvenuto l’assassinio di Moro e indica il luogo dove ricercarne il corpo. La segreteria Cgil è riunita in corso d’Italia.

La riunione convocata di concerto con le segreterie del sindacato scuola, della Fiom, della Federbraccianti, della Federazione enti locali e ospedalieri e degli enti statali per avviare una riflessione in preparazione del convegno unitario per il diritto allo studio che si terrà a Montecatini il 3-4-5 maggio viene sospesa non appena si riceve la notizia.

Due giorni dopo, il 20 aprile, alla redazione di la Repubblica arriva il vero comunicato n. 7: è il comunicato dell’ultimatum: “Scambio di prigionieri o lo uccidiamo”. Il 21 aprile “la segreteria confederale si riunisce in via straordinaria per valutare gli ultimi sviluppi della vicenda relativa al rapimento dell’onorevole Moro. Nel comunicato delle ‘brigate rosse’ di ieri mentre si denuncia come apocrifo il comunicato precedente che indicava l’avvenuta uccisione, si fissa l’ultimatum dello scambio del rapito con 13 brigatisti attualmente in carcere. Questi elementi di novità nella situazione e le prese di posizione diverse emerse nei giorni scorsi all’interno del movimento sindacale sembrano escludere, secondo la segreteria, la possibilità di una valutazione unitaria della Federazione [Cgil-Cisl-Uil]”.

Si discute quindi sull’opportunità di una dichiarazione della segreteria della confederazione di corso d’Italia. “La segreteria, dopo un dibattito cui partecipano tutti i presenti escluso Verzelli [Lama, Marianetti, Giovannini, Didò, Garavini, Trentin, Zuccherini, Giunti], pur ritenendo utile un intervento di orientamento per le strutture periferiche, deve registrare l’impossibilità di una presa di posizione perché si sono evidenziate notevoli differenze sia di principio che di ordine politico nel merito della questione relativa alla possibilità o meno di una trattativa coi brigatisti da parte dello Stato”.

L’epilogo della vicenda è tristemente noto. Nel comunicato n. 9 le Brigate rosse scrivono: “Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”. Così, sempre dal palco di Piazza San Giovanni a Roma, dirà il 10 maggio Luciano Lama: “Anche oggi, come il 16 marzo, Roma è qui in questa piazza per esprimere alla famiglia Moro e alla Democrazia cristiana la solidarietà dei lavoratori e per ribadire con fermezza incrollabile la volontà del nostro popolo di difendere lo Stato democratico, le nostre libertà […]”.

“Chi era Aldo Moro – si domanda Lama –? Egli era il capo di un partito col quale il movimento sindacale in questi decenni ha avuto anche momenti di contrasto e di lotta. Era uomo di partito e uomo di Stato, era, io credo, un moderato nella concezione politica e nel carattere, ma un moderato illuminato da una viva intelligenza e sensibilità sulle trasformazioni in atto nella società italiana, attento e lungimirante nel prevedere gli sviluppi dei processi che si svolgevano anche nel profondo di questa società. […] Noi sappiamo che le Brigate Rosse colpiranno ancora e potranno colpire uomini politici, sindacalisti, cosa che hanno già cominciato a fare, e dirigenti di impresa e poliziotti”.

“La lotta contro il terrorismo non finisce oggi – conclude il suo discorso il leader della Cgil –, anche se il miglioramento dell’efficienza dell’apparato dello Stato dovrà rendere più spedita l’azione contro le forze eversive. Ma se il paese rinserrerà le sue file, se il destino d’Italia sarà preso nelle proprie mani da ogni lavoratore, l’esito finale di questa dura prova è sicuro: le Brigate Rosse potranno ancora distruggere e uccidere, la loro barbarie inumana potrà farci ancora soffrire, ma essi non prevarranno”.

Ilaria Romeo è responsabile dell'Archivio storico Cgil nazionale

Calogero Cangelosi, 70 anni dopo la Cgil lo ricorda

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Il 1° aprile del 1948 viene assassinato a Camporeale, al confine tra le province di Trapani e Palermo, il segretario della Camera del lavoro Calogero Cangelosi, socialista e dirigente delle lotte contadine. Da tempo nel mirino dei latifondisti del paese, viene colpito a morte alle 10 della sera mentre torna a casa dopo una riunione in cui si è discusso della conquista delle terre, dell’applicazione dei decreti Gullo sulla divisione del grano ai contadini, della concessione alle cooperative contadine delle terre incolte. Con lui altri due sindacalisti, Vincenzo Liotta e Vito Di Salvo, sono colpiti e feriti gravemente, mentre Giacomo Calandra e Calogero Natoli rimangono miracolosamente illesi.

Ai funerali di Cangelosi parteciperanno tutti i contadini del paese e dei comuni del circondario: in mezzo a loro e accanto ai familiari anche il segretario nazionale del Psi Pietro Nenni, venuto a onorare il suo compagno di partito (lo stesso Pertini si interesserà attraverso la rete di Solidarietà democratica della famiglia del sindacalista).

Non sarà mai bandito un processo e, nonostante tutti sapessero che a dare l’ordine di morte era stato il proprietario terriero don Serafino Sciortino (di cui Cangelosi era mezzadro) e che a sparare erano stati il capomafia Vanni Sacco e i suoi picciotti, si procederà contro ignoti. “Cangelosi fa parte dei 36 morti che ha avuto la Cgil tra il ’45 e il ’66 e che stiamo ricordando, alcuni per la prima volta in questi anni, per strappare le loro storie dall’oblio – afferma il segretario della Cgil di Palermo Enzo Campo –. L’antimafia ha origini antiche. Risale al periodo successivo al movimento contadino dei fasci siciliani, alla storia di questi pionieri, che sapendo di essere nel mirino e completamente indifesi, si sono battuti per portare avanti i loro ideali, gli ideali dei contadini e della gente comune, rimettendoci la pelle”.

Quando me lo hanno portato via, povera anima del Paradiso!, io non avevo niente, non possedevo nulla, se non un affitto da pagare e quattro figli da sfamare – racconta la moglie di Cangelosi, Francesca Serafino –. Sono stata costretta ad andare in campagna a lavorare con gli uomini. Ricordo ancora i calli alle mani, le fatiche che ho dovuto sopportare. Ma i miei figli piangevano, volevano il pane, volevano le scarpe, e io non sapevo più come aiutarli […]. Mio marito era iscritto al partito socialista e allora questo era considerato un reato. Lo avevano minacciato, ma lui mi diceva di non preoccuparmi perché non faceva male a nessuno. Calogero era un uomo sincero: quando è morto ha pianto tutto il paese. Ho cercato di ottenere una pensione minima, ma non ci sono riuscita. Poi, su consiglio di mio fratello, ci trasferimmo a Grosseto”.

La mia mamma aveva solo due mesi quando è morto suo padre, dirigente sindacale ammazzato dalla mafia a Camporeale. Ha vissuto col rammarico di non averlo mai conosciuto”, diceva due anni fa Sonia Grechi, nipote di Calogero Cangelosi, in occasione del 68° anniversario della scomparsa. “La vera motivazione della morte di mio nonno l’ho saputa soltanto quando ero già grande, quando una volta con la nonna abbiamo sfogliato le foto dell’album di famiglia e c’erano quelle del funerale – continua a raccontare Sonia, oggi dirigente della Filcams a Grosseto –. Per la nonna, che si arrangiava con tanti lavoretti, era difficile crescere quattro figli. Così, dopo 12 anni dalla morte di suo marito, preferì anche lei per motivi di lavoro lasciare la Sicilia e trasferirsi a Grosseto, dove c’erano già altri parenti di mio nonno”.

E da Grosseto partirà oggi, venerdì 6 aprile, una delegazione che parteciperà a Camporeale alla manifestazione commemorativa in ricordo del sindacalista assassinato dalla mafia, alla quale saranno presenti, assieme ai familiari di Cangelosi, il segretario generale della Cgil di Grosseto Claudio Renzetti e il segretario regionale della Cgil Toscana Maurizio Brotini. La manifestazione si aprirà alle ore 9,30 con la deposizione di una corona d’alloro in piazza Cangelosi. Alle 10, 30 nella sala consiliare si svolgerà un dibattito che sarà coordinato da Dino Paternostro, responsabile legalità per la Cgil Palermo, a cui interverranno il sindaco del Comune di Camporeale Luigi Cino, don Luca Leone, sacerdote delegato dell’arcivescovo di Monreale, Sonia Grechi, nipote di Calogero Cangelosi, Giuseppe Di Lello, ex magistrato, Claudio Renzetti, segretario generale della Camera del lavoro di Grosseto, Filippo Cutrona, segretario generale della Cgil Trapani, Maurizio Brotini, segretario regionale della Cgil Toscana, Enzo Campo, segretario generale della Cgil Palermo e Michele Pagliaro, segretario generale della Cgil Sicilia, che concluderà con il suo intervento la giornata.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

Quando Liberazione faceva rima con giustizia sociale

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Il 25 aprile 1945, il Comitato di liberazione nazionale alta Italia proclama l’insurrezione in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti. È il punto di arrivo di quel lungo e travagliato processo resistenziale che poco meno di due anni prima, nel novembre del 1943, aveva fatto dire a un giovanissimo Bruno Trentin: “L’Italia finalmente si risveglia! Su tutta la superficie della penisola occupata dagli invasori tedeschi e dai loro degni sicari fascisti, il popolo italiano, quello del 1848, quello di Garibaldi e di Manin è in piedi e lotta [...]. Dopo aver dormito vent’anni, questo popolo martire fa sentire all’immondo aguzzino in camicia nera tutte le terribili conseguenze del suo risveglio. È in piedi oramai. Lo si era creduto morto, servitore, vile e codardo, e invece è là!”.

Un processo, quello che aveva portato alla Liberazione, che 33 anni dopo, nell’aprile 1978, veniva ricordato da Luciano Lama con queste parole: “Perché abbiamo combattuto contro i fascisti e i tedeschi? Perché abbiamo rischiato la vita, perduto, nelle montagne e nei crocevia delle nostre campagne, nelle piazze delle nostre città migliaia dei nostri compagni e fratelli, i migliori? Perché siamo insorti, con le armi, quando il nemico era più forte di noi? Abbiamo lottato allora per la giustizia e per la democrazia, per cambiare l’Italia, per renderla libera […]”.

Dobbiamo sconfiggere nella coscienza dei lavoratori e del popolo ogni tentazione al disimpegno – proseguiva l’allora segretario generale della Cgil – da qualunque parte essa venga. […] Oggi, in un momento drammatico della nostra storia, guardiamo con grande preoccupazione al presente e ricordiamo con giusta fierezza, anche se senza trionfalismo, la lotta si trent’anni fa. […] I giovani devono crescere con questi valori, e sapere che la nostra generazione, pur con tutti i suoi limiti ed errori, ha creduto in qualche cosa e continua a crederci ed è capace di sacrificarsi e continua a sacrificarsi per questi valori. La nostra gioventù, così incerta e senza prospettive anche per nostre manchevolezze, deve ricevere da noi in questo momento una lezione, deve trovare in noi un esempio che come nel ’43-’44 non è fatto di parole, ma di scelte dolorose, di sacrificio anche grande perché c’è qualcosa che vale di più di ciascuno di noi, conquiste faticate nella storia degli uomini, che ci trascendono e si chiamano democrazia, libertà, uguaglianza” (LEGGI TUTTO).

Decisamente più improntate all’ottimismo le parole di Giuseppe Di Vittorio, in occasione del primo anniversario della Liberazione, riportate da Il Lavoro, giornale rotocalco della confederazione: “Il popolo italiano ha celebrato il primo anniversario della conclusione vittoriosa dell’insurrezione nazionale del 25 aprile 1945, che costituisce una delle pagine più significative e gloriose della storia d’Italia. L’aspetto più saliente e nuovo della vittoria italiana del 25 aprile non è tanto nel fatto in sé della liberazione del nostro Paese dal feroce invasore tedesco e dai suoi tristi complici italiani, quanto nel fatto che questa memorabile vittoria è stata conseguita dagli stessi italiani, dalle masse profonde del nostro popolo. Perciò il 25 aprile 1945 ha chiuso definitivamente una fase della storia d’Italia e ne ha aperta una nuova, della quale le masse popolari italiane sono l’autentico protagonista. Al potere delle vecchie classi dominanti, composte di limitati gruppi di plutocrati, di grandi latifondisti e di altri ristretti ceti retrivi e parassitari, estranei alle masse popolari – ch’essi guardavano con sospetto e con timore, per cui crearono il fascismo e gettarono l’Italia nell’abisso – succede il potere del popolo. Il regime della democrazia e della libertà, che dovrà essere fondato sulle solide basi d’una maggiore giustizia sociale”.

L’Archivio storico Cgil nazionale conserva, a partire dal 1945, un numero consistente di documenti relativi alla ricorrenza del 25 aprile. Solo per citarne alcuni, segnaliamo l’atto di resa del generale tedesco Gunther Meinhold e dei suoi soldati sottoscritto a Genova dall’operaio Remo Scappini (presidente del Comitato di liberazione nazionale della Liguria) il 25 aprile 1945 e donato alla Cgil nazionale nel 1949, e il racconto di quelle giornate (24-25-26 aprile) redatto in forma di verbale da un giovanissimo Bruno Trentin, “incaricato il 24 aprile del 1945 dal Comando Formazioni Giustizia e Libertà di assumere il comando della Brigata Rosselli” a Milano.

Ma non solo. Il fascicolo 154 della serie Atti e corrispondenza della segreteria confederale per l’anno 1948 custodisce le proteste delle commissioni interne della Montecatini (La Spezia), della Ansaldo (Genova), della Oto (La Spezia) e della commissione esecutiva della Camera del lavoro de La Spezia contro la decisione del Consiglio dei ministri di dichiarare il 25 aprile solennità civile invece che festa nazionale, mentre nella serie Circolari è conservato il testo che nel 1955 – in occasione del decennale della Resistenza – la segreteria nazionale invia alle sue strutture a firma Fernando Santi, con il quale, comunicando le iniziative previste in collaborazione con l’Anpi per le celebrazioni, si specifica che “la nostra celebrazione e il nostro contributo debbono avere una loro particolarità: sottolineeremo cioè nei nostri discorsi e nelle nostre pubblicazioni la tradizione democratica e antifascista del movimento sindacale in Italia, la sua lotta attiva contro la tirannide, il contributo della Cgil alla Resistenza, l’azione decisiva condotta dagli operai, specie nei grandi centri industriali del Nord, per la difesa delle industrie contro i fascisti e i tedeschi invasori” (LEGGI).

L’Archivio conserva inoltre gli appunti manoscritti utilizzati da Bruno Trentin nel suo comizio del 25 aprile 1975, documenti a stampa e appunti custoditi nel fondo personale del partigiano sindacalista Piero Boni, assieme ai diari personali del segretario confederale Manfredo Marconi e di Romildo Sandri, internato militare (1) (esempi entrambi della cosiddetta “altra Resistenza”) e a foto soprattutto relative al 25 aprile 1945 e successivi anniversari (Genova 1955, Milano 1955, Milano 1974, Milano-Arese, 1980).

Da Matteotti a Lina Fibbi, da Bruno Buozzi a Nella Marcellino, da Giuseppe Di Vittorio a Teresa Noce, da Luciano Lama a Bruno Trentin, i testi che segnaliamo a seguire offrono al lettore un’immagine della lotta di Liberazione a tutto tondo: una storia fatta di combattimenti, rappresaglie, repressioni, silenzi e grandi eroismi, che ogni anno ricordiamo in occasione del 25 aprile, data istituzionalizzata stabilmente quale festa nazionale il 27 maggio 1949, con la legge 260.

(1) Secondo l’Anpi i caduti nella Resistenza italiana (in combattimento o eliminati dopo essere finiti nelle mani dei nazifascisti), sono stati complessivamente circa 44.700; altri 21.200 rimasero mutilati o invalidi. Tra partigiani e soldati italiani caddero combattendo almeno 40 mila uomini (10.260 furono i militari della sola Divisione Acqui, caduti a Cefalonia e Corfù). Altri 40 mila Imi (internati militari italiani) morirono nei lager nazisti. Le donne partigiane combattenti furono 35 mila, e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della donna: 4.653 di loro furono arrestate e torturate, oltre 2.750 vennero deportate in Germania, 2.812 fucilate o impiccate, 1.070 caddero in combattimento, 19 vennero nel dopoguerra decorate di medaglia d’oro al valor militare. Durante la Resistenza le vittime civili di rappresaglie nazifasciste furono oltre 10.000. Altrettanti gli ebrei italiani deportati

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

I DOCUMENTI

Delitto Matteotti, l’inizio del regime

Bruno Buozzi: uno dei protagonisti dell’unità sindacale

25 aprile: il grande risveglio dell’Italia

Il 25 aprile di Bruno Trentin

Genova, 25 aprile: la città è stata liberata

L’8 settembre di Bruno Trentin

L’«Alba» dell’8 settembre

I primi giorni della Resistenza a Genova

Lavoro” e Resistenza

La Resistenza in convento

Teresa Noce, l’8 marzo al campo della morte

1945: indimenticabile quel Primo Maggio

27 ottobre 1955: bomba a corso Italia. La Cgil: chi li paga?

I dieci giorni che cambiarono il Paese

Attentato fascista alla sede della Cgil

12 dicembre 1969, a Milano comincia la stagione delle stragi

Per la democrazia, contro il fascismo

Lina Fibbi, una storia partigiana

Nella Marcellino: sorriso dolce, tempra d’acciaio

Le donne nella Resistenza

L’uomo che sfidò i clan con l’arma potente dell’ironia

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Il 9 maggio del 1978, mentre l’Italia è sotto choc per il ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro, a Cinisi, un piccolo paesino della Sicilia affacciato sul mare a 30 chilometri da Palermo, muore dilaniato da una violenta esplosione Giuseppe Impastato.

Nato il 5 gennaio del 1948 da una famiglia mafiosa, durante gli anni del liceo, nel 1965, Giuseppe – per tutti Peppino – aderisce al Psiup e fonda il giornalino L’idea socialista. Su questa pubblicazione racconta, tra l’altro, la marcia della protesta e della pace voluta da Danilo Dolci nel 1967 (LEGGI IL SERVIZIO A FIRMA GIUSEPPE IMPASTATO).

Il giornale viene sequestrato dopo pochi numeri e Peppino, lasciato il Psiup, inizia a collaborare con i gruppi comunisti locali, occupandosi in particolare delle battaglie dei disoccupati, degli edili e soprattutto dei contadini, che si vedono privati dei loro terreni per favorire la realizzazione della terza pista dell’aeroporto di Palermo proprio a Cinisi.

Dopo aver dato vita al circolo “Musica e cultura”, con il boom delle radio libere Peppino decide di fondarne una propria a Cinisi: Radio Aut. Nel programma Onda Pazza prende in giro i capimafia e i politici locali: il suo bersaglio preferito è don Tano Badalamenti (soprannominato Tano Seduto), erede del boss Cesare Manzella e amico di suo padre Luigi.

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Nel 1978 Peppino decide di candidarsi alle elezioni comunali del suo paese nella lista di Democrazia proletaria. Assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio a soli 30 anni, risulterà comunque eletto il 14 maggio con 260 voti (anche la madre si reca a votare, violando il lutto che la vuole reclusa in casa).

Stampa, forze dell’ordine e magistratura considerano in un primo momento la sua morte conseguenza di un atto terroristico suicida. Recita il fonogramma del procuratore capo Gaetano Martorana, poche ore dopo la scoperta dei resti: “Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda. […] Verso le ore 0.30 – 1 del 9 maggio 1978, persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificata in tale IMPASTATO Giuseppe […] si recava a bordo della propria autovettura FIAT 850 all’altezza del km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore”.

Contemporaneamente, però, comincia a delinearsi un’altra storia e la matrice mafiosa del delitto viene individuata anche grazie all’attività del fratello di Peppino, Giovanni, e della madre Felicia Bartolotta, che rompono pubblicamente con la parentela mafiosa e rendono possibile, in virtù della documentazione raccolta e delle denunce presentate, la riapertura dell’inchiesta giudiziaria (le indagini si concluderanno solo nel 2002, con la condanna all’ergastolo di Tano Badalamenti, poi deceduto nel 2004).

I ricordi di quel periodo sono terribili – ha recentemente raccontato Giovanni Impastato all’agenzia Dire –. È stato anche il giorno della morte di Aldo Moro. Per noi è stato un fulmine a ciel sereno, non ce l’aspettavamo. Ricordo che siamo anche stati trattati male dagli investigatori, che hanno perquisito le nostre abitazioni. Ci hanno preso per dei terroristi. Verso di noi sono stati brutali. Per questo a un certo punto abbiamo voluto trattenere le lacrime e ci siamo rimboccati le maniche”.

Nel 2003, in occasione del 25° anniversario della morte del figlio, Felicia Bartolotta raccontava a Gabriella Ebano (Felicia e le sue sorelle, Ediesse 2005):  “Cominciò con il Partito comunista. Venne una sera e disse: ‘Sai, fui promosso’. Lo zio gli fece un regalo e Peppino disse al padre: ‘Tu non me lo fai il regalo?’. ‘No, quando ti levi da questo partito, allora te lo faccio il regalo!’. Non lasciò il partito, non ha chiesto più niente al padre e uscì di casa. Poi il padre si convinse; diceva: ‘Va beh i comunisti!’. Quando invece Peppino parlò contro la mafia, no, convinzione niente! Però ci diceva a Badalamenti: ‘Tu non l’ha a ammazzare a mio figlio, tu ha da ammazzare a mia, no a mio figlio!’. E mio marito fu ammazzato […]. Poi, dopo sette mesi, quando mio figlio si portò [candidò] alle elezioni comunali, ammazzarono pure a lui. Facemo in questo sistema, dissero, come se fosse un terrorista”.

Negli Appunti per un’autobiografia”, testo di 10 pagine numerate in cui Peppino ricostruisce le tappe fondamentali della sua vita e della sua militanza, racconta lui stesso (Giuseppe Impastato, Lunga è la notte, a cura di Umberto Santino, Centro Impastato, Palermo, 2002, 2008, 2014): “Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare divenuta ormai insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto con connotati tipici di una società tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, fin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte ed il suo codice comportamentale. È riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva ed a compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività”.

È proprio questo che rende unica ed esemplare la vicenda di Peppino Impastato: il suo coraggio di sfidare prima ancora che la mafia la propria famiglia attraverso un’arma potentissima: l’ironia. Scriveva nel 2009 Fabrizio Lo Bianco su Il Sole-24 Ore a proposito della pubblicazione del fumetto “Peppino Impastato-Un giullare contro la mafia” (edizioni Becco Giallo), di Marco Rizzo (sceneggiatura) e Lelio Bonaccorso (disegni): “Nella trasmissione satirica Onda Pazza, Peppino Impastato usa l’arma dell’ironia e dello sfottò, come un giullare che mette a nudo ciò che tutti vedono ma che nessuno ha il coraggio di denunciare. Gira sfacciatamente il dito nella piaga delle infiltrazioni mafiose nel comune di Cinisi e nei retroscena dell’ampliamento dell’aeroporto di Palermo”.

Dalle frequenze della piccola emittente privata, fa nomi e cognomi di mafiosi e politici coinvolti e, soprattutto, di Tano Badalamenti. “L’attacco è come una firma sulla propria condanna a morte – prosegue Lo Bianco –. Impastato lo sa, ma non indietreggia, preoccupato solo che il fratello Giovanni non sia coinvolto in ritorsioni”. Quello stesso Giovanni che, a distanza di 40 anni, dice di lui: “È importante raccontare queste cose, portare avanti il suo messaggio. Lui ha operato una rottura storica, non solo nella società, ma anche nella famiglia, che era di origine mafiosa […]. Ancora oggi si ricorda una sua famosa frase, uno slogan forte contro la mafia, definita ‘una montagna di merda’. Era una frase colorita, ma ci sta. Perché la mafia è proprio quello”.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

D’Antona e la Cgil, un rapporto speciale

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Alle 8,30 circa del 20 maggio 1999, 29° anniversario della promulgazione della legge 300, nota come lo Statuto dei lavoratori, in via Salaria a Roma viene ucciso Massimo D’Antona, giurista e docente universitario di Diritto del lavoro, consulente dell’allora ministro del lavoro Antonio Bassolino.

Poche ore dopo, arriva la rivendicazione: 14 pagine stampate fronte-retro con la stella a cinque punte delle nuove Brigate Rosse: “La nostra organizzazione – si legge nel comunicato – ha individuato il ruolo politico-operativo svolto da Massimo D’Antona, ne ha identificato la centralità e, in riferimento al legame tra nodi centrali dello scontro e rapporti di forza e politici generali tra le classi, ha rilanciato l’offensiva combattente”.

“Credo che non ci siano dubbi – affermava due anni fa ai microfoni di Rai News il segretario generale della Cgil Susanna Camusso – sul fatto che il pensiero terrorista voleva annullare uno straordinario lavoro di riforma e di attenzione e qualificazione del lavoro che D’Antona stava facendo con quella idea d’inclusione che lo Statuto doveva mantenere, come principio di diritto inespropriabile. E credo che non sia casuale che si sia scelta quella data per assassinare lui e infangare quel lavoro”.

Oggi, sabato 19 maggio, alle ore 12 la figura di Massimo D’Antona, uomo, eroe civile e studioso delle regole al servizio della democrazia e della coesione sociale, verrà ricordata durante una commemorazione pubblica che si svolgerà nel luogo dell’agguato, alla presenza della cittadinanza e delle istituzioni, attraverso gli interventi di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, Claudio De Vincenti, ministro per la Coesione territoriale e il Mezzogiorno, e Franco Gabrielli, capo della Polizia, direttore generale di pubblica sicurezza, perché “memoria non sia mai cancellata. Perché ogni giorno torni il pensiero all’importanza di scegliere, cambiare per ridare senso e missione al lavoro”.

“Era un uomo mite e generoso – diceva di lui pochi giorni dopo la scomparsa Guglielmo Epifani, futuro segretario generale e all’epoca dei fatti numero due della Cgil –, che del dialogo e della ricerca di soluzioni aveva fatto la sua filosofia di vita”. “Era un intellettuale – gli faceva eco la moglie Olga –, un lavoratore, che attraverso la consultazione delle parti sociali cercava soluzioni possibili, concrete, realizzabili”.

A cinque anni di distanza da quel terribile 20 maggio, Olga D’Antona decide insieme a Sergio Zavoli di scrivere il libro “Così raro, così perduto”, una sorta di viaggio, di profonda riflessione su temi duri e intimi: il rapporto con il marito e con l’idea della morte, i sentimenti, la passione politica; ma anche il significato storico (e tutto italiano) di quella mattina del 20 maggio 1999, quando D’Antona viene ucciso con sei colpi di pistola, appena uscito da casa. “Non c’è alcun fondamento politico razionale nella strategia delle Br – scrive – e, oltre al dolore per la perdita della persona a me più cara, c’è l’amarezza dell’insensatezza di quell’assassinio”.

“Massimo D’Antona – affermava il 20 maggio del 2014, a 15 anni dalla scomparsa dello studioso, Claudio Palmisciano, presidente della Fondazione Prof. Massimo D’Antona (onlus) – aveva sempre avuto un rapporto speciale con il sindacato. Nella Consulta giuridica e nell’Ufficio legale della Cgil, nelle sedi unitarie di dibattito sui problemi giuridici dell’occupazione e del lavoro, il suo maggiore impegno è consistito nella ricerca di percorsi e di soluzioni che connotassero il sindacato come soggetto della trasformazione e dell’innovazione”.

A riprova di quanto fin qui sostenuto, riproduciamo a seguire i documenti redatti da Massimo D’Antona durante gli anni (1988-1996) della sua collaborazione con la Consulta giuridica della Cgil (1).

(1) I documenti, conservati in originale presso l’Archivio storico Cgil nazionale (consulta l’inventario), sono disponibili on line. Per maggiori informazioni vedi “L’officina delle idee. Le carte della Consulta giuridica della Cgil”, a cura di Andrea Allamprese, Ivano Corraini e Lorenzo Fassina, Ediesse 2016

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

LEGGI:

“Valutazione della rappresentatività dei sindacati ai fini della designazione di rappresentanti in organi pubblici collegiali: proposte di razionalizzazione”, bozza di relazione Massimo D’Antona, 29 dic. 1988;

“Appunto su una ipotesi di legge di sostegno delle Rsu” inviato da Massimo D’Antona a Paolo Lucchesi il 15 luglio 1991;

Massimo D’Antona, “Osservazioni in margine alla proposta della commissione di garanzia sul trasporto aereo”, 8 apr. 1992;

Massimo D’Antona, “Una riforma elettorale per il sindacato”, [apr. 1993];

Osservazioni di Massimo D’Antona sulla interpretazione della sentenza della Corte Costituzionale 243/1993

Nota datt. di Massimo D’Antona sugli “Effetti dell’eventuale accoglimento del referendum abrogativo dell’art. 26, comma 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori sulla disciplina dei contributi sindacali”, 16 mag. 1994

Nota (incompleta) sul tema ‘Democrazia e rappresentanza sindacale dopo la vittoria dei SI ai referendum’, di Massimo D’Antona (trasmessa via fax il 14 luglio 1995);

Massimo D’Antona, “I piedi di argilla del gigante confederale”, [gen. 1996]


Legge 194: 40 anni dopo la Cgil continua a non essere neutrale

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Il 22 maggio del 1978 la legge 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) viene pubblicata sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, divenendo a tutti gli effetti legge dello Stato. Capitolo conclusivo di una lunga battaglia iniziata qualche anno prima dal Partito radicale, la 194 (confermata da un referendum nel 1981) rende legale l’aborto attraverso l’abrogazione delle norme del titolo X del Libro II del codice penale (gli articoli 545-555 configuravano l’interruzione volontaria di gravidanza come “delitto contro l’integrità della stirpe” punibile con la reclusione, a seconda delle fattispecie di reato, fino anche a 12 anni).

Dopo il prologo, “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non é mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”, i punti principali della legge delineano tre l’altro l’istituzione dei consultori familiari, il termine di 90 giorni entro cui ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza, l’obiezione di coscienza, le pene non più punitive, ma a tutela della donna (è prevista la reclusione da 3 mesi a 2 anni per chi cagiona a una donna per colpa l’interruzione della gravidanza; reclusione da 4 a 8 anni per chi cagioni l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna).

Già nel 1971 la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo l’articolo 553 del codice penale, che prevedeva come reato la propaganda degli anticoncezionali. Sempre nel 1971 veniva presentato il primo progetto di legge in materia (n. 1762) firmato dai senatori socialisti Banfi, Caleffi, Fenoaltea: la proposta – così come quella presentata nell’ottobre dello stesso anno – non sarà nemmeno discussa. L’11 febbraio di tre anni più tardi, Loris Fortuna (il deputato socialista che aveva dato il suo nome alla legge sul divorzio approvata nel 1970 dal Parlamento e confermata dal referendum del 12 maggio 1974) presenterà un nuovo progetto di legge sulla depenalizzazione e legalizzazione dell’aborto sul quale convergeranno il Partito radicale e il Movimento di liberazione della donna, mentre il 18 febbraio del 1975 la Corte costituzionale dichiarerà parzialmente illegittimo l’articolo 546 del codice penale, riconoscendo la legittimità dell’aborto terapeutico, e il 29 aprile del 1975 il Parlamento approverà la legge 405 per l’istituzione dei consultori familiari.

Tra febbraio e aprile 1975 vengono presentate sei proposte di legge sulla materia. Intanto si cominciano a raccogliere le firme per un referendum abrogativo delle norme del codice penale che vietano l’aborto (l’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme per il referendum) e inizia la discussione sul testo di legge unificato. “È stata definitivamente approvata dal Parlamento, ora quindi è legge dello Stato, la regolamentazione dell’aborto che garantisce la maternità libera e responsabile – scriverà Maria Lorini, responsabile dell’Ufficio lavoratrici della Cgil, su Rassegna Sindacale il 1° giugno 1978, meno di 10 giorni dopo la promulgazione della legge  –. Questo fatto risponde in modo positivo alla più profonda istanza proveniente da gran parte delle forze politiche e sociali, in particolare dai movimenti femminili, e da larghissime zone dell’opinione pubblica di varia ispirazione ideale, nonché dalla stessa richiesta di referendum”.

È una risposta, a giudizio della dirigente Cgil, all’istanza morale, civile e democratica di cancellare le norme fasciste del codice Rocco con tutto il loro carico di crudele e inumana ipocrisia. “La legge come prima cosa – prosegue Lorini – risponde all’esigenza sociale di combattere l’aborto clandestino, vero dramma per le donne dei ceti popolari, che nessuna legislazione primitiva è in grado di contenere. L’interruzione della gravidanza viene ora consentita da norme che, rispettando la libertà e la dignità della donna, rispondono nel contempo al problema umano e civile di non lasciare sola la donna in una circostanza certamente non facile, comunque la si voglia considerare. Come la legge che regola il divorzio, il provvedimento sull’aborto non rappresenta evidentemente un obbligo per alcuno, ed è perciò rispettoso degli orientamenti ideali e morali di ogni cittadino, di ogni donna, in quanto non impone a nessuno soluzioni in contrasto con le proprie concezioni ideologiche”.

Due anni più tardi, alla vigilia del referendum abrogativo della legge, la stessa Maria Lorini torna a prendere posizione con nettezza: “Le proposte di referendum del Movimento per la vita, che di fatto è movimento contro la legge che regola l’interruzione della gravidanza – scrive sempre su Rassegna (n. 39 del 23 ottobre 1980) – non godono solo come ha dichiarato il segretario della Dc della ‘benevola attenzione a del suo partito’. Esse godono del sostegno espresso dalle gerarchie ecclesiastiche, con pesanti e inammissibili ingerenze nelle vicende del nostra Paese, in sfere che attengono esclusivamente alla sovranità e all’autonomia del nostro Stato”. “Può il sindacato in questa situazione rimanere indifferente – continua la responsabile dell’Ufficio lavoratrici –, essere ‘neutrale’ di fronte a un problema che, è vero, interessa tutti, ma principalmente le famiglie dei lavoratori e la grande massa delle donne dei ceti meno abbienti, per il carico di rischi e di indegne speculazioni che significherebbe l’abrogazione della 194?”.

Un problema che si ripropone e attorno al quale nel passato nel movimento sindacale si era verificata un’articolazione di posizioni. “Per quanto riguarda la Cgil – scrive ancora Lorini –mantengono pienamente il loro valore di attualità le tesi, sostenute sin dal IX Congresso in poi, secondo le quali il sindacato non può rimanere estraneo rispetto alle questioni civili, in particolare a quelle che riguardano più da vicino grandi masse lavoratrici e popolari”. “Quindi – conclude – al di là delle scelte ideologiche e di schieramento, non possiamo essere dalla parte delle forze che vogliono l’abolizione della legge. E non possiamo esserlo anche perché, come grande movimento unitario, dobbiamo essere rispettosi di tutti gli orientamenti ideali che sono presenti tra i lavoratori. La legge oltre a non prefiggersi come obiettivo quello dell’aborto, non impone a nessuno che non lo voglia la interruzione della gravidanza: il suo annullamento al contrario, impone a tutti, anche a chi ha altre convinzioni, scelte di parte le quali più che sulla forza morale puntano sulla imposizione di un divieto legislativo. Non è possibile dunque essere neutrali – ribadisce Lorini – rispetto al tentativo in atto di annullare la legge che condannerebbe nuovamente la gran parte delle donne al pericoli e ai drammi dell’aborto clandestino”.

Oggi come ieri, la Cgil sceglie di non rimanere neutrale e in occasione del quarantesimo anniversario dell’approvazione della legge 194 invia, assieme a una vasta rete di donne e di associazioni, di esponenti della politica, delle istituzioni, della cultura e del mondo accademico, una lettera aperta alle parlamentari della XVIII legislatura dal titolo “Le donne sono qui”. “Vogliamo celebrare con voi, che siate d’accordo o no – si legge nel testo – i 40 anni della legge che ha dato alle donne il diritto di dire la prima e l’ultima parola sul proprio corpo”. Nella lettera le promotrici si pronunciano contro i reiterati attacchi alla legge 194 e alla sua applicazione, sostenendo che “non ci può fare paura l’oscena propaganda che si sta scatenando in questi giorni contro questa legge, che pretende di mostrare le donne come assassine”. “Vi scriviamo – chiariscono le mittenti – per dirvi che, qualunque governo verrà, le donne non faranno un passo indietro, speriamo di avervi al nostro fianco. Continueremo a lavorare per affermare la nostra piena cittadinanza e per rendere migliore questo Paese”.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

Brescia, 44 anni fa la strage di Piazza della Loggia

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Il 28 maggio 1974 a Brescia, durante una manifestazione unitaria del sindacato, scoppia una bomba a Piazza della Loggia. È una strage fascista; i morti sono otto, di cui cinque attivisti della Cgil: Giulietta Banzi Bazoli di anni 34, Livia Bottardi Milani di anni 32, Clementina Calzari Trebeschi di anni 31, Euplo Natali di anni 69, Luigi Pinto di anni 25, Bartolomeo Talenti di anni 56, Alberto Trebeschi di anni 37, Vittorio Zambarda di anni 60. Cinque delle vittime erano insegnanti, tra cui tre donne e un ragazzo del sud Italia. Con loro un operaio, legato agli insegnanti come a rappresentare l’unione scuola-lavoro e il lavoro come principio di solidarietà, e un ex partigiano, a segnare la continuità coi principi della Resistenza. 

E proprio il sindacato degli insegnanti, che ha pagato un tributo così grande in quella strage, chiama oggi alla mobilitazione: "In piazza come allora - scrive in una nota la Flc Cgil di Brescia - con la consapevolezza che il pensiero dell’odio omicida, della negazione dell’altro, dell’esclusione razzista, trova manifestazioni nuove con le quali esprimersi, ma di fascismo si tratta ancora".

"Giulietta, Clementina, Alberto, Livia, Luigi - scrive ancora la Flc bresciana - erano in piazza allora per testimoniare che l'antifascismo nella scuola, nella vita civile è  impegno, responsabilità, studio, contaminazione, gioia di vivere, arricchimento nella relazione, curiosità verso il nuovo, pensiero critico verso le offerte di riflessioni dominanti, risolutezza nella tutela della democrazia come dimensione dentro la quale aspirare all’affermazione sociale di tutti e non una competizione distruttiva".

ARCHIVIO: Strage di Brescia, la sentenza è una vittoria definitiva
Ore 10,12: carneficina in Piazza della Loggia
, I.Romeo

"La ferma e determinata risposta che i cittadini di allora seppero fornire trovando nelle organizzazioni sindacali luoghi saldi di democrazia hanno permesso di dare al dolore dei familiari un senso civile che negli anni si è arricchito e non può accettare che permangano segreti che coinvolgono apparati dello stato e impediscono l’affermarsi della giustizia", conclude la Flc Cgil di Brescia.

Luciano Lama: l’uomo, il leader sindacale

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Oggi, giovedì 31 maggio, alle ore 11 la Cgil ha deposto – in occasione del 22° anniversario della sua scomparsa – una corona di fiori sulla tomba di Luciano Lama. La commemorazione si è tenuta presso il cimitero romano del Verano, alla presenza del segretario confederale Gianna Fracassi e della famiglia Lama

Il 31 maggio 1996 moriva a Roma all’età di 75 anni Luciano Lama, giovane partigiano protagonista della stagione fondativa della democrazia italiana, dirigente sindacale e uomo di sinistra, costruttore del sindacato e della Repubblica.

In occasione del 22° anniversario della sua scomparsa, le figlie Rossella e Claudia, con la collaborazione di Silvia Asoli (segretaria organizzativa della Cgil Rieti-Roma Est-Valle dell'Aniene) hanno deciso di versare all’Archivio storico Cgil nazionale la documentazione privata del grande sindacalista, raccolta e custodita negli anni da Lama stesso e da sua moglie Lora, recentemente scomparsa.

Un piccolo tesoro che racconta la vicenda non solo professionale, ma anche umana del segretario più longevo della storia della Cgil, che guida dal 1970 al 1986. Al centro della scena pubblica per più di 50 anni, Lama sa come coniugare le forme più classiche della mobilitazione sindacale con i linguaggi della politica nella società di massa, attraverso una presenza efficace tanto nelle lotte operaie quanto nella comunicazione più tradizionale.

La documentazione appena acquisita dall’Archivio nazionale rappresenta senza dubbio un punto di vista privilegiato attraverso il quale osservare e studiare la figura di quello che Mario Guarino ha definito “il signor Cgil”. “C’è gente come la pesca, tenera di fuori e dura di dentro. C’è gente come la noce, dura di fuori e tenera dentro. Io cerco di essere come la pesca”, dirà di se stesso Lama, ed è proprio questa l’immagine che le carte restituiscono: quella di una persona riservata, ma non schiva, dall’immensa personalità e carica umana. Un uomo, prima che un politico o un sindacalista, circondato da affetto vero, amato da familiari, compagni e lavoratori, stimato dagli avversari come controparte dura, ma comunque leale.

Tante sono le fotografie con la moglie, le figlie, il nipotino che gli album e i raccoglitori contengono; tante le lettere affettuose a lui indirizzate; tanti i ricordi dei viaggi – anche e soprattutto all’estero – e delle iniziative alle quali Lama, attento, partecipa e dalle quali si lascia coinvolgere. Tra le chicche acquisite segnaliamo una vignetta originale di Forattini, le pagelle delle scuole elementari, il certificato di laurea firmato da Calamandrei (1), le foto in cui, sorridente e sereno, duetta con Renzo Arbore e Iva Zanicchi, le immagini dell’inaugurazione, nel 2006, della strada a lui intitolata e adiacente a quella Piazza San Giovanni teatro di tanti suoi comizi (2), l’immagine fotografica di uno dei suoi primi interventi in pubblico, a Forlì, per sostenere le ragioni del voto referendario del 2 giugno 1946.

Ma bellissime sono anche le foto, giovanissimo, con Giuseppe Di Vittorio. Il rapporto tra Lama e Di Vittorio è un rapporto molto speciale, nato nel 1945 quando il giovanissimo Luciano partecipa – in qualità di segretario della Camera del lavoro di Forlì – al congresso nazionale della Cgil a Napoli. “Tra Lama e Di Vittorio si instaura un rapporto particolarissimo – scrive Giancarlo Feliziani –: per Lama, Di Vittorio è un maestro di vita, per certi versi un secondo padre. Ha stima incondizionata e grande tenerezza per quel dirigente straordinario in grado di guidare scioperi, indirizzare congressi, ma anche capace di addormentarsi improvvisamente nel bel mezzo di una riunione”.

“Per Di Vittorio – prosegue Feliziani –, uomo appassionato e dalla forte personalità, autonomo nel pensiero e non condizionato da vincoli di appartenenza politica, un uomo schietto che ha dedicato la vita alla causa del lavoro, mai disposto ad accettare ordini, neppure se arrivano dalle Botteghe Oscure o da Togliatti in persona, per Di Vittorio quel giovane con la faccia aperta ai dubbi rappresenta il futuro, la speranza, l’entusiasmo, l’intelligenza politica. Ma quel giovane disinvolto e laureato in Scienze sociali rappresenta anche ciò che lui, bracciante poverissimo, avrebbe voluto, ma non è riuscito a essere. Quei due uomini diventano inseparabili: dove c’è Di Vittorio, un passo indietro, c’è sempre anche Luciano Lama, che giorno dopo giorno va assumendo nel sindacato un ruolo di sempre maggior spicco. La sua ascesa irresistibile è nelle cose, nell’organizzazione quotidiana, nella progettualità della Cgil”.

Lama è al fianco di Di Vittorio – e le foto conservate in Archivio lo testimoniano – ai funerali delle vittime dell’eccidio di Modena del 1950 e compare sempre più spesso al suo fianco nei viaggi ufficiali tanto che, si racconta, a volte veniva scambiato per il figlio. Quando Scelba gli ritira il passaporto nella primavera del 1952, impedendo a Di Vittorio di recarsi a New York al Consiglio economico e sociale dell’Onu come presidente della Federazione sindacale mondiale e i parlamentari della Cgil protestano con il presidente della Camera, è il giovane Lama che tiene i contatti con Di Vittorio. Ed è sempre Lama a pronunciare al comitato direttivo del 3 dicembre 1957 l’orazione funebre a lui dedicata.

“Cosa devo a Di Vittorio? Prima di tutto – dirà nel novembre 1981 in un’intervista all’Espresso – i ferri di un mestiere non facile. Il coraggio di affrontare la realtà, anche quella che non ti piace. Lo sforzo costante di non appagarsi della superficie, ma di vedere quello che c’è sotto le cose. Infine, l’abitudine a pensarci su, a non essere frettoloso nei giudizi, ma poi ad avere il coraggio di esprimerli anche controcorrente”.

Per le testimonianze che contengono, per la documentazione che offrono, per i testi ancora inediti che vedono la luce, i materiali acquisiti costituiscono le nuove tessere di un mosaico che ci consente di disegnare un ritratto a tutto tondo di ciò che Luciano Lama è stato nel corso della sua vita, gettando qualche nuovo fascio di luce su questioni remote di cui è stato protagonista e testimone.

Dall’infanzia alla Resistenza, dalla segreteria del sindacato dei chimici alle lotte operaie dell’Autunno caldo, da Forlì a Roma, da giovane ragazzo a nonno affettuoso, si dipana, in una meravigliosa commistione tra pubblico e privato, il racconto di 50 anni di vita italiana passata tra le fabbriche, la famiglia, le piazze e le scrivanie.

(1) Lama si iscrive alla Cesare Alfieri di Firenze nel 1939 e da disertore, perché ufficiale che non rispose alla chiamata della Repubblica di Salò, discute la tesi di laurea (“Case coloniche della mezzadria classica in Romagna”) nel 1943 con il nome di battaglia Boris Alberti (la laurea gli sarà consegnata anni dopo dal rettore di Firenze Piero Calamandrei)

(2) Dal rapimento di Aldo Moro il 16 marzo 1978 alla manifestazione sulla scala mobile del 24 marzo 1984, Piazza San Giovanni è stata per Lama il luogo dei grandi appuntamenti, delle grandi sfide. Con la cerimonia funebre di fronte alla basilica romana si chiude, nel 1996, una tradizione di comizi e discorsi che ha caratterizzato i 16 anni della sua segreteria in Cgil

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

Militello e la passione per il cambiamento

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Nato a Montemaggiore Belsito (Palermo), ci lascia Giacinto Militello, dottore in giurisprudenza, già segretario confederale della Cgil e presidente dell’Inps. Presidente nazionale dell’Ugi (l’Associazione degli universitari laici e di sinistra) nel 1960, della corrente di Lelio Basso, quindi passato al Psiup e al Pci, dal 1962 al 1977 è in Federbraccianti (prima in Sicilia e poi nella segreteria nazionale), dal 1977 al 1978 è alla Filcea (da segretario generale aggiunto), dal 1978 al 1985 è componente della segreteria confederale Cgil diretta da Luciano Lama.

Dal 1985 al 1989 è presidente dell’Inps (primo comunista a ricoprire tale carica), poi per un anno amministratore delegato dell’Unipol e infine, dal 1990 al 1997, membro del primo collegio della nuova Autorità garante della concorrenza e del mercato. È stato animatore, insieme a Carlo Cicerchia e Silvano Andriani del Centro studi marxisti, interlocutore vivace nel dibattito politico e culturale degli anni Sessanta e Settanta.

Esempio di quella generazione di intellettuali, molti meridionali, che, seriamente impegnati nello studio e nella ricerca e progettazione del futuro, scelsero la sinistra e il sindacato come terreno e strumento della loro azione culturale e politica, Militello se n’è andato discrezione che ha contraddistinto la sua vita privata e pubblica. Tra i protagonisti dell’avventura unitaria della Federazione Cgil-Cisl-Uil, Militello vive in primo piano le vicende del divorzio di San Valentino e del referendum sulla scala mobile.

Proprio in occasione dell’accordo di San Valentino, Enrico Galantini e Luisa Benedettini si accingono all’impresa abbastanza improba di raccontare sulle colonne di Rassegna Sindacale (n. 30, 27 luglio 1984) la divisione tra Cgil, Cisl e Uil ascoltando (e facendo parlare) tutte e quattro le campane: Mario Colombo per la Cisl, Silvano Veronese per la Uil, Giacinto Militello per la maggioranza comunista della Cgil, Fausto Vigevani per la minoranza socialista. Tutto questo sul giornale di una confederazione divisa: una novità non da poco e non ripetuta in occasione di altre divisioni, in anni successivi. Lascerà la Cgil poco tempo dopo per ricoprire l’incarico di presidente dell’Inps.

Così dirà Luciano Lama, segretario generale della Cgil, in apertura dei lavori del comitato direttivo del 16 novembre 1985: “Prima di questa relazione e del dibattito relativo, noi pensiamo, facendo una piccola inversione dell’ordine del giorno, di procedere a una decisione che pure è di grande rilievo, e cioè la sostituzione nella segreteria confederale del compagno Giacinto Militello, diventato i giorni scorsi, come voi sapete, presidente dell’Inps, sulla base di una proposta e di decisioni che già precedentemente prese il nostro comitato direttivo, con il compagno Lucio De Carlini. Questa è la decisione che, se è d’accordo, deve prendere il nostro comitato direttivo. Naturalmente, soprattutto la seconda decisione implica poi delle conseguenze che riguardano altre nostre strutture fondamentali di grande rilievo, ma queste decisioni saranno prese dalle strutture medesime con procedure e discussioni che già sono in corso al loro interno. Io non so se dobbiamo fare dei discorsi particolari intorno a una proposta di questo genere. La prima era già stata discussa, assunta da un direttivo precedente: il compagno Militello esce dalla segreteria, ma naturalmente non esce dal direttivo, tanto meno dall’esecutivo o dal consiglio generale. La decisione che riguarda Militello è una decisione di altra funzione per conto della Cgil e del movimento sindacale in un posto di altissima responsabilità e prestigio, e quindi credo che ci sia soltanto da augurare al compagno Giacinto Militello non solo tanta salute ma anche tanti successi in un lavoro che è assai complicato. Basta vedere le decisioni che si vanno prendendo anche in questi giorni nelle stesse sedi parlamentari per capire quanto quel posto sia caldo e coinvolto in scelte politiche di grande peso. Quindi ci vorrà tutto il suo acume, intelligenza politica e tutto il nostro appoggio e sforzo per fare in modo che la sua gestione nella direzione dell’Inps ottenga risultati significativi e porti dei miglioramenti sia nel lavoro pratico, operativo, che non è poco nell’Inps come gestione degli affari correnti e di questo settore fondamentale della politica previdenziale e sociale, segnata dalla nostra confederazione, sia anche per i cambiamenti e le riforme alle quali naturalmente la gestione Militello potrà dare un contributo rilevante con l’impegno che noi tutti dobbiamo mettere in questa parte delle politiche sociali e sindacali. Quindi, auguri tanti al compagno Militello che non lascia la Cgil, al contrario, la serve in quella posizione e continuerà a frequentare le nostre sedi e le nostre riunioni del direttivo e dell’esecutivo”.

Militello lascia la moglie e due figli. Sarà sepolto nel cimitero di Montemaggiore Belsito, nel Palermitano, dove era nato. Così lo ricorda Susanna Camusso: “La Cgil piange Giacinto Militello, dirigente confederale che ha caratterizzato un'intensa stagione unitaria di lotte e conquiste sindacali. Un abbraccio a Laura e alla famiglia”.

Aggiunge Fausto Durante, responsabile delle politiche europee e internazionali della Cgil: “Ho avuto il privilegio di un rapporto stretto con Giacinto quando nel 2001, da responsabile della previdenza complementare della Fiom nazionale, gli chiesi a nome di Claudio Sabattini di diventare presidente di Cometa, il fondo pensionistico integrativo dei metalmeccanici. Avevamo pensato che un compagno con la sua esperienza avrebbe garantito la competenza e la serietà necessarie per gestire i risparmi dei lavoratori e assicurare rendimenti e risultati all’altezza. Non ci siamo mai pentiti della scelta, sotto la sua direzione Cometa è diventato un fondo grande, un soggetto importante nell’economia nazionale. Ho incontrato Giacinto molte volte nella sua casa romana, spesso assieme alla sua compagna, Laura Pennacchi. Giacinto è stato un uomo perbene, un gentiluomo, un sindacalista preparato, un intellettuale raffinato, un riformista vero, sempre con l’assillo di cambiare lo stato delle cose. Giacinto e le sue riflessioni sulla sinistra e il lavoro ci mancheranno moltissimo”.

Addio a Giacinto Militello
Cgil Palermo: sindacalista di grande spessore

Vittorio Foa, militante della democrazia

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Dieci anni fa, il 20 ottobre 2008, moriva a Formia Vittorio Foa, politico, sindacalista, giornalista e scrittore. Un uomo che dagli esordi in Giustizia e Libertà, passando per la Resistenza, la Costituente, la militanza nel Psi, nella Cgil, nel Psiup, la vicinanza al Pci come indipendente, ha attraversato l’intera storia del movimento operaio e della sinistra italiana.

Nato a Torino il 18 settembre 1910, Foa consegue nell’ateneo cittadino la laurea in Giurisprudenza nel 1931. Amico di Leone Ginzburg, nel 1933 si avvicina al gruppo antifascista di Giustizia e Libertà, collaborando con lo pseudonimo di Emiliano ai quaderni pubblicati a Parigi. Il 15 maggio 1935 viene arrestato a Torino su delazione dell’informatore dell’Ovra Pitigrilli.

Poco dopo l’arresto è trasferito a Roma, nel carcere di Regina Coeli, e denunciato al Tribunale speciale fascista. Resterà detenuto fino al 23 agosto 1943. Dopo la caduta di Mussolini passa dal carcere all’illegalità nella Resistenza. Membro del Partito d’azione nel Cln del Piemonte, rappresenta in seguito il suo partito nel Comitato di liberazione nazionale alta Italia, occupandosi tra l’altro della stampa clandestina.

Con il ritorno della democrazia, è deputato – eletto con il Partito d’Azione – alla Costituente, dando un determinante contributo alla stesura degli articoli 39 e 40 della Carta costituzionale sulla libertà di organizzazione sindacale e sul diritto di sciopero. Attivo fin dal 1948 nella Fiom, nel 1955 ne diventa segretario nazionale e due anni più tardi, alla morte di Giuseppe Di Vittorio, passa alla segreteria nazionale della Cgil. Ricorderà anni dopo Piero Boni in una bella intervista a Simone Neri Serneri: “[Alla morte di Di Vittorio] Nella corrente socialista si aprì un confronto assai vivace. Si confrontano tre posizioni. La prima sostiene che il segretario generale della Cgil deve rimanere alla corrente comunista, che è maggioritaria. Tesi sostenuta da Santi e Foa. La seconda: si proceda collegialmente fino al congresso. Tesi sostenuta da Lizzadri. La terza: nella Cgil dopo il congresso di Napoli del novembre del 1952, congresso nel quale è stata discussa e approvata una mozione unitaria, non esistono più differenziazioni di politica sindacale fra socialisti e comunisti […]”.

Anche all’interno del Psi le opinioni sono divise. Alla fine il segretario Pietro Nenni si schiera con Santi e Foa: “Novella – sempre nei ricordi di Boni – è eletto segretario generale, Santi diviene aggiunto, Foa entra in segreteria Cgil provenendo dalla Fiom. Alla Fiom vengono proposti, al posto di Novella e Foa, Lama e Boni. Per venire incontro alla tesi che anche i socialisti potevano diventare n.1, il socialista Capodaglio è eletto segretario generale degli edili, al posto del comunista Scheda, che diviene segretario confederale. Così si concluse il vivace scontro nella corrente socialista per la successione di Di Vittorio”.

Nel 1970 Vittorio decide di lasciare gli incarichi sindacali per dedicarsi agli studi. Dirà nel suo discorso di addio alla confederazione: “Voi sapete che questo distacco è difficile. Mi consentirete di non vestire di parole dei sentimenti che sono agitati e profondi. Vi prego caldamente, in ragione di un’antica stima reciproca, di dispensarvi da parole di commemorazione o gratificazione. Voglio solo ringraziarvi tutti, e con voi mille e mille compagni noti o sconosciuti, per quel che in tanti anni avete fatto di me” (LEGGI TUTTO). Dopo una parentesi di militanza in formazioni della sinistra che lui stesso contribuisce a far nascere e che lo vede impegnato, dal 1972 al 1980, nelle file prima del Psiup, poi del Pdup, del Pdup per il comunismo e infine di Dp, Foa si allontana nuovamente dalla vita politica attiva. Fino al 1987, quando viene eletto senatore nelle liste del Pci e poi del Pds come indipendente

Annunciandone la scomparsa dirà l’allora segretario del Pd Walter Veltroni. “È un immenso dolore per noi, per il popolo italiano, è un immenso dolore per gli italiani che credono nei valori di democrazia e libertà, per l’Italia che lavora, per il sindacato a cui Vittorio Foa ha dedicato la parte più importante della sua vita […]. È un dolore per me personalmente, perché Vittorio Foa incarnava ai miei occhi il modello del militante della democrazia, un uomo con una meravigliosa storia di sofferenza, di lotta e di speranza, un uomo della sinistra e della democrazia, mosso da un ottimismo contagioso e da un elevatissimo disinteresse personale […]. Penso che tutto il Paese senta Vittorio Foa come uno dei suoi figli migliori”.

Aggiungerà l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: “Partecipo con profonda commozione personale al generale cordoglio per la scomparsa di Vittorio Foa. Egli è stato senza alcun dubbio una delle figure di maggiore integrità e spessore intellettuale e morale della politica e del sindacalismo italiano del Novecento. La sua dedizione alla causa della libertà, cui pagò da giovanissimo un duro prezzo nelle carceri fasciste, la sua partecipazione alla Resistenza, il suo appassionato e illuminato impegno nell’Assemblea costituente e nel Parlamento repubblicano, la sua piena identificazione – da combattivo dirigente della Cgil e da studioso – con il mondo del lavoro, gli hanno garantito un posto d’onore nella storia dell’Italia repubblicana. Egli ha dato prove esemplari del suo disinteresse e del suo rigore e ha vissuto i suoi ultimi anni con riserbo e sobrietà, rompendo in rare occasioni il silenzio per trasmettere messaggi sempre lucidissimi di fede nei valori democratici e costituzionali”.

Le esequie si tengono a Roma il 22 ottobre (GUARDA IL VIDEO). Davanti alla sede della Cgil nazionale in tanti (più di mille persone) porteranno l’ultimo saluto a un uomo fondamentale per la storia del sindacato e della sinistra italiana. Tante le autorità presenti alla cerimonia: tra di esse il leader della Cgil Guglielmo Epifani, insieme a tutta la segreteria confederale, Fausto Bertinotti, Walter Veltroni, Piero Fassino, Massimo D’Alema e Sergio Cofferati. “La Cgil è stata la sua casa. Se ne va uno dei grandi uomini del nostro sindacato. Dobbiamo ringraziarlo per tutto quello che ci ha dato e per il senso di libertà che ci ha lasciato – disse Epifani –. A volte la sua poteva sembrare una speranza disarmata, ma Vittorio ha sempre visto nel fare e nell’agire il legame tra la speranza e il cambiamento […]”.

A noi fa piacere ricordarlo attraverso le sue parole, custodite all’interno del volume “Cent’anni dopo. Il sindacato dopo il sindacato", a cura di Guglielmo Epifani e Vittorio Foa, Einaudi, Torino 2006: “Nel lavoro della formazione e soprattutto in quella che il dirigente dà agli altri dirigenti – afferma Foa –, nella continuità del suo lavoro, vi è un elemento molto importante, e non si tratta della disciplina, ma è la lotta contro il conformismo. Non bisogna accusare l’indisciplina. Non c’è niente di male a essere indisciplinati, se nell’indisciplina c’è una volontà. La cosa peggiore è quando la volontà non c’è più, quando si sceglie sempre di dare retta ad altri. L’insegnamento da dare ai compagni è che pensino con la loro testa. Possono anche pensare male, ma l’importante è che pensino con la loro testa. Questa è la vita che io credo di avere vissuto nella Cgil e credo di aver amato nella Cgil più di ogni altra cosa”.

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale

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